Cos’è umano? La questione, complessa e antica, interessa svariate discipline. Philip Dick, famoso scrittore di fantascienza, affronta il tema con originalità. Collega infatti l’unicità umana all’empatia, ovvero la capacità di porsi nei panni dell’altro, seguendo il pensiero di San Paolo. L’idea è analizzata criticamente (ma non esclusivamente, è un tema ricorrente nella sua produzione) nel romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, per alcuni, Bladerunner, per molti. Pubblicato nel 1968, è stato successivamente reso celebre dalla trasposizione cinematografica di Ridley Scott, efficace nell’atmosfera e nella resa degli androidi, definiti “replicanti”, più che nei temi pensati dallo scrittore. Dick dà risalto alle differenze tra uomini, androidi e animali, questi ultimi assenti nel film.
Il romanzo mostra un mondo tecnologico post-apocalittico, dove molti vivono nelle colonie extraterrestri. La vicenda ruota attorno a Rick Deckard, un cacciatore di androidi, assoldato per eliminare (“ritirare”) alcuni replicanti fuggiti da Marte.
Il ritratto di Deckard è desolante, inadeguato socialmente perché non ha un animale domestico (ovviamente elettronico, quelli vivi sono rarissimi), è sostanzialmente insoddisfatto della sua vita. I veri protagonisti sono però gli androidi: in origine creati per svolgere lavori pesanti, con il passare del tempo sono divenuti molto simili agli umani. Tanto che, per evitare crisi psicologiche, a queste creature sono stati innestati dei falsi ricordi. D’altronde, rendersi conto di essere un prodotto tecnologico e non un vivente (mi chiedo, possiamo realisticamente parlare di vivente e non vivente?) può minare qualsiasi psiche.
Dal test di Turing ai falsi ricordi
Cos’è un androide? Semplificando, un androide è un robot dai connotati antropomorfi. Se ne parla sin dalla mitologia greca, un esempio è Talos, il gigante di bronzo creato da Efesto per sorvegliare l’isola di Creta. I recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale (ancora lontana dall’immaginario dickiano) hanno reso il dibattito attualissimo, in particolare la lentezza e l’impreparazione mentale rispetto all’evoluzione del fenomeno.
Secondo Adriano Fabris: come la nottola di Minerva, metafora di Hegel sul necessario ritardo della speculazione filosofica rispetto agli eventi del presente, noi umani siamo costantemente in ritardo nel comprendere lo sviluppo dell’IA. Quindi non sarebbe possibile giungere ad una comprensione o ad una terminologia adeguata per regolamentare le implicazioni future. Questo porrebbe l’osservatore in difetto rispetto all’evoluzione tecnologica, figuriamoci poi con androidi simili agli umani.
La questione è spinosa, sin dalla definizione di intelligenza. Per questo è interessante il Test di Turing: il matematico propose un esperimento in cui, secondo alcuni parametri, si potrebbe stabilire se un azione o un comportamento sono umani o artificiali. Tuttavia, sono stati sollevati dubbi sul test, semantici, tecnici, antropologici quanto filosofici. Se consideriamo l’intelligenza come un ottimale svolgimento di compiti, difficilmente un algoritmo fallirebbe il test. Se, invece, consideriamo l’intelligenza legata ad emozioni complesse, il risultato sarà ben diverso.
Nel romanzo l’evoluzione del test (in grado di misurare emozioni profonde) permetterebbe la distinzione uomo-macchina, il funzionamento è però fallace: alcuni umani non riescono a passarlo, alcuni androidi sì. I “replicanti” hanno coscienza, sognano, desiderano, hanno sete di conoscenza e amano.
Dick inserendo la storia tra Rachel (androide) e Rick Deckard indica l’amore come un criterio non esclusivamente umano; in generale, possiamo riscontrare in molte specie animali dei sentimenti d’amore e compassione (i piccioni sono monogami, i cani amano i padroni). La memoria potrebbe facilitare le cose, tuttavia impiantando dei ricordi agli androidi, per renderli inconsapevoli della loro condizione, la differenza è annullata. Quindi androidi e uomini sarebbero quasi perfettamente sovrapponibili, se non per un dettaglio: gli androidi desiderano essere umani, gli umani lo sono e basta.
Sull’empatia… più umani degli umani
Il desiderio di essere umani, rispetto alla mera contingenza della nascita, rende gli androidi ancor più umani degli umani e più innamorati della vita. Tanto da essere “disumanamente umani”. Gunther Anders ha proposto il concetto di “vergogna prometeica”, ovvero il senso di impotenza e di inferiorità che le persone avrebbero al cospetto della tecnologia, questo porrebbe in contrapposizione l’empatia mostrata dalle macchine dickiane al fatalismo e all’apatia umana.
Nel romanzo, l’empatia viene trattata su due livelli. Nel primo, il lettore vede gli androidi come una comunità oppressa, una minoranza emarginata senza diritti legali. Il lettore prova compassione verso i “replicanti”. L’empatia viene poi discussa all’interno della trama. Dick inizialmente, tramite i pensieri di Deckard, esclude la possibilità che gli animali provino empatia:
L’empatia, evidentemente, esisteva solo nel contesto della comunità umana, mentre qualche grado di intelligenza si poteva trovare in qualsiasi specie e ordine animale […]. La facoltà empatica, tanto per cominciare, richiedeva probabilmente un istinto di gruppo integro; un organismo solitario, per esempio un ragno, non saprebbe cosa farsene; anzi, l’empatia tenderebbe ad atrofizzare la capacità di sopravvivenza del ragno. Lo renderebbe conscio del desiderio di vivere insito nella preda.
Questo però è valido sia per gli animali (invece, esistono prove di empatia animale), sia per gli umani (con riferimento alla caccia feroce nei confronti degli androidi). Dick, da abile narratore, rovescia il concetto mostrando la brutalità umana rapportata alle emozioni e all’attaccamento alla condizione umana da parte delle macchine. Tali questioni, all’apparenza paradossali, vengono inserite in una visione negativa dell’umano, ovviamente non si tratta della totalità degli androidi (o, al contrario, degli umani) ma quel che importa è evidenziare la contrapposizione, anche in modo esagerato come fa Dick.
L’urlo di Munch
“L’urlo” di Munch è forse la migliore rappresentazione dell’inquietudine umana. Osservando il quadro, Phil Resch ragiona sull’angoscia esistenziale di umani e androidi, in uno dei passaggi più affascinanti dell’opera:
Il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che lo circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per essere contenuta nel proprio urlo. Si era coperta le orecchie proprio per non sentirlo. La creatura era in piedi su un ponte e non c’era nessun altro presente; urlava nell’isolamento più totale. Tagliata fuori dal suo sfogo – oppure, nonostante il suo sfogo. […] “Secondo me” disse Phil Resch “è così che deve sentirsi un droide.” Con un dito seguì nell’aria le volute del grido della creatura che si vedevano nel quadro. “Io non mi sento così, perciò forse non sono un…”.
Io ne ho viste di cose che voi umani…
Quindi cos’è un umano? Nell’opera, Dick non fornisce una risposta, piuttosto lascia un monito. L’umanità, seguendo l’esempio degli androidi, ha bisogno di una comunità, di empatia verso il prossimo e soprattutto dovrebbe, nonostante tutto, apprezzare la propria natura, qualunque cosa significhi. Il protagonista Rick Deckard, dopo essere stato salvato dal “replicante” Roy Batty (uno degli androidi che avrebbe dovuto uccidere), nel finale del film, si rende conto dell’estrema umanità degli androidi, divenuti migliori degli umani.
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
Alberto Palmieri