Sorelle mie isteriche: da Muse a Eroine

«Eroine» di Kate Zambreno

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«Eroine» di Kate Zambreno

Nell’ultimo giorno del 2009 la scrittrice statunitense Kate Zambreno inizia a tenere un blog: Frances Farmer is my sister. Testarda, sfrontata, aggressiva, Frances Farmer era tutto quello che una diva del cinema non poteva permettersi di essere. Così, tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, era stata sottoposta a tutte le cure psichiatriche che si prevedevano per le isteriche come lei: l’idroterapia, l’elettroshock, la permanenza in manicomio.

Come Kurt Cobain, che nel 1993 le dedica Frances Farmer will have her revenge on Seattle, Kate Zambreno si rispecchia nella malinconica figura di Frances e in tutte quelle artiste che, troppo eccentriche e troppo rumorose, sono state abbandonate dalla storia. Zelda Fitzgerald, Sylvia Plath, Vivienne Haigh-Wood: donne che sono ricordate, nel migliore dei casi, come le mogli pazze di scrittori più grandi di loro.

Nel 2014, dal blog di Zambreno nasce Eroine, saggio ibrido che innesta su un unico corpo queste vite, senza perdere il riferimento alla vita della scrittrice stessa. Il testo è stato riedito l’anno scorso, e a febbraio è stato pubblicato in Italia per la prima volta da Nottetempo, la stessa casa editrice che si sta occupando di pubblicare le opere dell’editor di Zambreno, Lidia Yuknavitch.

La comunità invisibile delle scrittrici folli

Quella di recuperare dal passato voci e parole non proprie è una pratica comune a molti, ma nelle pensatrici femminili assume una valenza ancora più specifica. La speranza è quella di trovare una voce familiare, una comunanza, anche se differita nel tempo e nello spazio. La stessa Zambreno cita, infatti, la filosofa e critica Hélène Cixous, che scriveva «Ho stretto alleanze con le mie anime gemelle di carta». Quella di Zambreno è una «comunità invisibile», composta da donne che sono state spinte a forza nell’invisibilità e nel silenzio. È un sindacato, per usare le parole dell’autrice, di mogli dimenticate o cancellate.

Eroine è un tentativo appassionato di restituire alle donne le voci che hanno perso, di avere un dialogo impossibile, a posteriori, per far parlare chi è stato zittito. Come scrive Adriana Cavarero in Tu che mi guardi, tu che mi racconti, questo di raccontare l’altra, di darle una voce, di costruire una storia che le renda giustizia, è un istinto femminile e femminista che va a colmare i vuoti lasciati aperti da chi, in genere, gestisce la narrativa.

L’esistenzialista e l’isterica

T.S. Eliot, infelicemente protagonista-antagonista insieme a tanti altri di questo saggio, scriveva: «Diffido del Femminile in letteratura». È uno sforzo comune a tutti i grandi scrittori, soprattutto ai modernisti americani: allontanare dalle proprie opere tutto ciò che è femminile, che è isterico, allo stesso modo in cui allontanano dalle proprie vite le loro mogli, donne ormai instabili, rese fragili e aggressive da anni di matrimonio, ovvero da anni di sacrifici gratuiti celebrati in nome dell’unico scopo concepibile: quello di vedere pubblicata la Grande Opera del marito.

Eppure, agli uomini è permesso provare grandi emozioni senza il pericolo di essere internati. Zambreno propone come esempio il caso di Amleto e Ofelia, entrambi resi folli da un dolore che però viene raccontato e rappresentato in due maniere diametralmente opposte. I mariti di queste donne-fantasmi, che prolungano il loro grido furioso nell’opera di Zambreno, erano alcolisti, nevrotici, tendenti alla depressione e alle crisi di rabbia, ma, mentre le mogli vengono ricordate come pazze, loro vengono ricordati come eroi della letteratura esistenziale.

Lui è l’eroe del racconto. È Ofelia quella che piagnucola e si lagna e affoga in un dito d’acqua.

Zelda, che vide i suoi diari ricopiati e poi pubblicati nei romanzi del marito, si sentì dire che un’aspirazione letteraria non avrebbe giovato alla sua salute mentale. Prima di tutto, in manicomio, le tolsero penne e matite. (Perché non potesse farsi male, perché non potesse raccontare la sua versione dei fatti). Respinte a forza nel ruolo di Muse, le donne della comunità fantasmatica di Zambreno sono andate bene finché sono state fonte di ispirazione, e poi sono diventate un peso, un motivo di vergogna.

Il processo maschile e modernista della creazione (autore/musa) rispecchia non solo la relazione tra mistica e confessore ma anche quella tra medico e paziente, nella cura della parola di stampo freudiano (e in tutti e tre i binari lei è il materiale grezzo, cui è necessario dar forma e ordine in una narrazione; lei sprizza ovunque, lei va contenuta).

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Di letteratura e di patologia: chi fa le regole?

Chi, e secondo quali criteri, imposta il canone letterario? Chi nomina la pazzia? Chi detiene il potere della patologizzazione? Sono quesiti che, come l’autrice ben sa, si era posto negli anni Settanta Michel Foucault, che intorno al problema della follia e della psichiatria ha lavorato senza sosta. Come Foucault, Eroine di Zambreno ruota intorno al perno del potere e delle funzioni che gli sono associate.

Chi decide cosa è letteratura? E chi decide cosa è follia? Chi ha, infine, il potere di discriminare tra la grande, eroica, esistenziale, nevrosi dei modernisti americani e la patetica, fastidiosa, inopportuna schizofrenia delle loro mogli? Kate Zambreno lavora a queste domande e alle rispettive risposte con un’ironia furiosa, lasciando emergere la brutalità delle condizioni a cui le sue Eroine sono state sottoposte.

Inizio a rendermi conto che è il patriarca a stabilire il mezzo di comunicazione. A stabilire il linguaggio. Il patriarca è colui che riscrive.

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«Eroine» di Kate Zambreno: prolungare il grido

Progetto di cura, di recupero di una storia e di una memoria che vanno perdendosi, Eroine (acquista) è un saggio frammentario e frammentato, all’interno del quale le emozioni, che sembrano fluire dalle Eroine nella penna di Zambreno, non sono in alcun modo celate. Abituata a destreggiarsi sia nella scrittura accademica che in quella creativa, l’autrice compone un patchwork di riflessioni spontanee, aneddoti letterari, riferimenti bibliografici che risuonano come un’ode alle donne che la storia della letteratura ha dimenticato.

Spesso crudo, il saggio risponde soprattutto a un’esigenza di comunità sentita personalmente dall’autrice, ricostruendo anche quello che è il mondo sempre più popolato delle blogger, comunità quasi totalmente femminile, all’interno della quale si dà la possibilità di una scrittura nuova, viscerale e diaristica. Con una voce certamente personale, Eroine rimette in scena una storia che personale non è, perché riguarda in toto il mondo dell’arte e delle relazioni gerarchiche che lo strutturano.

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Maia Tomasella

Classe 1999, laureata in Scienze Filosofiche, provo a conciliare il mio amore per la filosofia con quello per la letteratura. Sottolineo i libri con la penna e parlo troppo, di solito con i gatti.

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