Alle porte del nuovo anno e, ancor prima, di fronte all’imminente cenone di Natale, con truppe schierate di parenti, che richiamano all’appello natalizio (pena dell’assenza, l’indignazione da parte dell’intero albero genealogico) zii di America, cugini acquisiti, di quarto grado e trisavoli ultracentenari, può essere particolarmente interessante la lettura di un libro venuto da poco a popolare gli scaffali delle librerie italiane.
Si intitola I figli che non voglio ed è stato ideato e curato da Simonetta Sciandivasci, giornalista per La Stampa, che gli affezionati conosceranno come Sciandi. Il libro nasce da un diversificato coro di voci, entrate a far parte di un dibattito al quale nessuno – e il libro lo dimostra – può sottrarsi: l’avere dei figli. O il non averli affatto. O meglio: l’essere delle madri, ma anche il non esserlo, il non poter esserlo, il non voler esserlo. Il sentirsi madri. E ancora: l’essere padri, l’avere una rilevanza in quanto padre. L’essere madre o padre e, contemporaneamente, figlia o figlio. Pezzetti di forme e colori diversi che costellano il secolare dibattito sulla procreazione.
«I figli che non voglio»: un destabilizzante 5%
Una bomba a orologeria si scaraventa sulle scrivanie degli uffici de La Stampa dopo che Simonetta Sciandivasci pubblica sul settimanale Specchio, il 16 gennaio 2022, un articolo in cui rivendica la sua posizione di non volere figli. Il primo dell’anno esce infatti il report dell’Istat sulla natalità, che registra il suo minimo storico. Il papa parla di «inverno demografico», le trasmissioni televisive chiamano giornalisti e opinionisti a rapporto per animare il dibattito. Tra questi dati, Sciandivasci riconosce di far parte di un’esigua percentuale: sono il 5% le donne che non vogliono fare figli. Scrive un articolo dai toni scherzosi, un po’ irriverenti, e non tardano ad arrivare commenti, lettere e opinioni sulla faccenda. Da qui nascerà l’antologia I figli che non voglio.
Quando la biologia si fa cultura
Si sente spesso dire che «soltanto chi ha figli può capire» e può, di conseguenza, avere una voce di rilievo nella discussione sulla maternità. Si sente, ancor più spesso, parlare di «orologio biologico», come quel nervoso ticchettio nella pancia del coccodrillo che tormenta Capitan Uncino e lo perseguita. La nascita di un figlio viene data per scontata di fronte ad una donna, magari trentenne, «nel fiore dei suoi anni», con qualcuno al suo fianco e un lavoro.
Tutto scorre su una linea così naturale e consequenziale da apparire ovvia e doverosa. Siamo abituati, già da piccoli, a domande che ci portano a fantasticare sui nomi dei nostri futuri figli, su come saranno, cosa faranno. I bambolotti donati innescano subito questa corsia preferenziale tra te e il potenziale di nuova vita. Con la quale prima o poi – anche tu – dovrai fare i conti. Si attende poi una certa età, per arrivare, finalmente e a diritto, a porgere la fatidica domanda: «e tu?».
Dentro al vaso di Pandora
Sciandivasci chiama dunque a raccolta scrittori e scrittrici, giornalisti e giornaliste, uomini e donne. La questione appare per tutti e di tutti. C’è Elisa Casseri che in materia di riproduzione si dichiara «agnostica». C’è chi ritiene, come Silvia Ranfagni, che l’espressione «avere un figlio» sia ingannevole poiché «porta a pensare a una qualche forma di possesso e di controllo», mentre la crescita di una vita porta con sé il fattore dell’imprevedibilità.
Leggi anche:
Niente game over per le donne
Qualcuna non è madre, ma si sente tale nei confronti del suo lavoro, del suo libro, delle tante maternità e nascite che nella vita ha dovuto portare avanti, con la stessa creatività e forza d’animo di una madre. Qualcun’altra ancora si sente madre di sua madre, come afferma Maria Sole Tognazzi: «a un certo punto, la vita impone un ribaltamento dei ruoli, i genitori diventano figli dei loro figli e viceversa», sostenendo poco prima che «i figli sono solo uno dei modi che le donne hanno di esprimere la maternità».
Sulla linea delle tante maternità si pongono anche Carlotta Vagnoli e Giorgia Surina, parlando di madri single. Veronica Pivetti rivendica il suo ruolo di ultracinquantenne in una società che esorta a procreare, ma poi si dimentica di chi è stato già procreato: «adesso che questa figlia è cresciuta, e non ha fatto figli, non ditele che non conta più come prima, perché le dareste un dolore».
E i padri?
I diversi contributi maschili ampliano ulteriormente lo specchio del mosaico. Lo scrittore Marco Franzoso dà una delicatezza tutta particolare al ruolo di un padre che rimane solo con il figlio di otto mesi e con il padre malato, entrambi bisognosi delle sue cure e attenzioni. Anche qui i ruoli si ribaltano e comincia col definirsi padre di suo padre e figlio di suo figlio. Come fa anche Nadia Terranova che, in procinto di generare una nuova vita, è pronta a regalarle l’universo e aspettare che sia poi sua figlia a spiegarglielo.
Alcuni affrontano il tema del genitore prevalente e della bigenitorialità di fronte alla separazione di due genitori. L’avvocatessa e scrittrice Ester Viola parla di come tocchi sempre alle madri ricoprire un ruolo prevalente nella vita di un figlio con due genitori divorziati; mentre il giornalista Francesco Ditaranto comunica il suo dolore nel vedersi portare via sua figlia in un altro Paese, soltanto perché padre. Si parla di ostensione dei figli, come oggetti da mettere in vetrina e confezionare con i migliori lustrini, andando incontro ad un mercato consumistico che trova in questo pane per i propri denti. Gianluca Nicoletti si scaglia contro i paparini, quei padri che ostentano amore per i propri figli, difendendoli e utilizzandoli come strumento per una definizione finalmente completa di sé stessi.
Leggi anche:
«Mai dati», alla ricerca della stanza 194
«I figli che non voglio»: parenti, Istat e nuove consapevolezze
Ogni punto di vista mostra quanto l’universo-maternità non sia una questione per poche elette, per le madri a pieno diritto, bensì un po’ di tutti. Soprattutto mostra quanto sia inutile trovare una definizione che legittimi il proprio ruolo. Come se ognuna di queste figure (madri, non-madri, padri, genitori single e chi più ne ha più ne metta) desse una definizione compiuta alla propria esistenza. Ma fare figli o non farli non può essere una rivendicazione del proprio sé o delle proprie idee.
Il coro che Sciandivasci dirige ne I figli che non voglio (acquista) non può che essere, dunque, una lettura preziosissima, soprattutto di fronte a quella zia che, nel bel mezzo della seconda portata del pranzo di Natale, reclama a gran voce il proprio nipotino. A gennaio arriverà poi un nuovo rapporto dell’Istat e la tela di questo dibattito non potrà che vedere nuovi ampliamenti e modifiche. L’augurio è che, ogni notte, non venga disfatta, come Penelope faceva con la sua, ma che porti pian piano a nuove e fertili consapevolezze di chi una madre lo è e di chi, invece, alla maternità dice di no.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!