Soirée Manzoni

Call letteraria: Biglietto del museo

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Sara era da poco uscita dall’ufficio del direttore della testata giornalistica dove prestava servizio nel settore cultura e spettacolo. Le avevano appena ridimensionato l’orario e di conseguenza lo stipendio e, con un diavolo per capello, camminava lungo via dell’Orso senza una precisa meta. Potevano farlo, il suo era un contratto a termine e toccava a loro rinnovarlo o revocarlo. A dispetto dell’eccellente voto di laurea e alla sua oggettiva competenza in materia, era ancora sotto l’egida di San Precario, come tanti coetanei nelle sue stesse condizioni. Erano i tempi: la crisi economica, la necessità di ridurre i costi aziendali (salvo poi aumentarli a dismisura, pagando stipendi d’oro alla dirigenza), l’omologazione dell’informazione e i consueti tagli alla cultura.

Per di più, era ai ferri corti con il suo ragazzo che non sentiva come lei l’esigenza di pianificare il loro futuro. La notte precedente al fatidico appuntamento con il simpatico direttore, l’avevano trascorsa a casa di lei, un grazioso monolocale, triste emblema del suo destino da single. Avevano litigato fino a tarda notte, senza concludere niente e, infine, lui se ne era tornato a casa sua. Sara, amareggiata, gli aveva detto: «Se esci da qui, non ritornare».

Percorrendo via dell’Orso, ricca di boutique di lusso, che contribuirono a buttar giù il suo morale, s’imbatté in una scena che richiamò la sua attenzione. All’altezza dell’elegante Hotel Milano Scala, una distinta signora, a tutti gli effetti una persona di rilievo sociale, nel lasciare l’edificio e nella fretta di entrare nell’auto che la aspettava, non si era accorta che dalla giacca portata al braccio era caduta una busta. La lettera in questione aveva tutta l’aria di non essere carta straccia. Sara, con gesto impulsivo, cercò di attirare la sua attenzione, ma la donna s’infilò nell’auto, che ripartì in gran carriera, lasciando la busta abbandonata sul marciapiede. A lei non rimase altro da fare che raccoglierla e sventolarla in direzione dell’auto, che però aveva già svoltato per via Mercato, sparendo alla vista. Che fare? Si chiese, infastidita da quell’imprevisto. Pensò di consegnarla alla hall dell’albergo, ma prima di decidersi si passò tra le mani la busta, che aveva proprio un bell’aspetto e, poiché non era chiusa, si chiese se non fosse il caso di dare prima un’occhiata a ciò che conteneva. 

La busta, un cartoncino sottile e leggermente ruvido al tatto, portava stampata in un angolo la dicitura: Palazzo Reale Milano e scritto a mano, in una calligrafia elegante, il nome e il titolo della persona cui era destinata: Lady Mary Cecil Forester. Vinta dalla curiosità, la aprì e vi trovò un biglietto d’invito, stranamente impersonale, per il vernissage che si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni. Il museo intendeva onorare il famoso Piero Manzoni con una mostra antologica. Nel biglietto, si pregava il destinatario di recarsi con il presente presso l’area VIP della reception e commutarlo in un ingresso gratuito.

Sara, abituata a frequentare gallerie d’arte e musei, soppesò l’importanza dell’evento: la prima grande esposizione che la sua città dedicava al famoso artista in uno spazio pubblico. Conosceva Piero Manzoni e le sue provocazioni, sapeva anche (e non tutti ne sono a conoscenza) che era un discendente dell’illustre Alessandro Manzoni. 

Indecisa sul da farsi, si diresse verso la reception e, presentando il suo tesserino da giornalista, chiese informazioni sulla donna che solo poco prima aveva lasciato l’albergo, al ché le fu risposto che la signora era diretta, in tutta fretta, all’aeroporto di Malpensa, dove la attendeva un volo per New York. Raccontò l’accaduto e chiese cosa doveva farne della lettera, ma l’addetto al ricevimento, un tipo piuttosto sbrigativo alle prese con altri clienti, avendo costatato che non conteneva preziosi né informazioni private, le rispose che non aveva senso lasciarla presso di loro e che se voleva poteva andarci lei al vernissage.

Una volta a casa, consultò il sito internet del museo e lesse che si trattava di un evento davvero speciale. Poi fece ricerche sulla donna e scoprì che era l’art director di Harper’s Bazar, l’importante rivista di moda. Ritenne suo dovere scrivere all’indirizzo email che trovò nei contatti, ma non ricevette risposta. Fu così che decise di sostituirsi alla Lady e andare lei a Palazzo Reale: un po’ di mondanità non poteva che metterla di buon umore.

Il giorno in cui era previsto l’evento, lasciato l’ufficio, corse a casa e si dedicò con cura alla sua toeletta, scelse un abitino scollato di colore carminio che le fasciava la vita, dando risalto alla sua silhouette, al biancore del suo incarnato e in perfetto contrasto con la folta chioma scura che aveva raccolto in una coda laterale. Indossò delle scarpette nere, pose gli occhiali sul viso e si offrì al giudizio dello specchio. Di faccia, di profilo, infine di spalle e si trovò molto carina. Consapevole di non dover in  nessun  modo indugiare (lo specchio avrebbe potuto giocarle brutti scherzi), uscì da casa e si avvio verso Piazza Duomo.

Il servizio d’ordine schierato all’ingresso la preoccupò non poco, al punto da chiedersi se non sarebbe stato meglio rinunciare, doveva trattarsi di una serata molto esclusiva per richiedere misure di sicurezza che andavano ben oltre la normale pratica di misurare la febbre e mostrare il green pass, di cui era ovviamente fornita. Una volta su, si avviò al desk, mostrò l’invito e lì ebbe la prima sorpresa. Mai, in vita sua, era stata trattata con maggiore riguardo, evidentemente anche nella ristretta cerchia degli invitati c’erano delle differenze e lei era in prima categoria. Dopo aver compiuto le formalità, la ragazza che le stava di fronte la informò che aveva a disposizione una guida in lingua che l’avrebbe accompagnata durante il tour delle sale.

Grande fu lo stupore di Sara quando apprese la notizia e, ancora di più, quando vide avvicinarsi un giovane uomo che con un cortese inchino e in perfetto inglese si presentò: «Buonasera, sono stato incaricato da Harper’s Bazar di accompagnarla nella visita alla mostra. Il mio nome è Andrea Damiani, sono uno storico d’arte. Quando vuole, possiamo cominciare il nostro giro».

«Buonasera» rispose lei. «Piacere di conoscerla, possiamo andare. E parli pure italiano!» 

L’uomo, sulle prime si stupì ma assecondò la sua richiesta. «L’artista in questione, come di certo saprà, è considerato uno dei massimi esponenti dell’avanguardia artistica del XX secolo… ».

E così, passando da una sala all’altra, commentando le opere del maestro, i due cominciarono a familiarizzare, tanto che Sara propose di passare al tu. Lui, che forse si era già reso conto ci fosse qualcosa di anomalo in quell’incontro (quella giovane donna non poteva essere la famosa Lady di cui gli avevano parlato), non volendo fare gaffe, aspettò comunque che fosse lei a chiarire l’equivoco. Infatti, dopo non molto, fu Sara a svelare il qui pro quo. Lo trovava simpatico e pensò che la cosa giusta da fare, arrivati a questo punto, fosse confessare tutto.

«Senti Andrea, lo avrai capito, io non sono Mary Cecil Forester, mi chiamo Sara Andreani, sono una giornalista e mi trovo qui assolutamente per caso».

«Ammetto che mi ero accorto che qualcosa non tornava, sapevo di trovare una scostante snob newyorchese, avanti con gli anni, e mi sono ritrovato di fronte una splendida ragazza italiana» le rispose con galanteria. 

Al ché, Sara raccontò la storia del ritrovamento della busta, specificando che aveva fatto il possibile per restituirla. Parlarono un po’ di sé stessi e fu l’occasione per lei di dirgli che con tutti i casini nei quali si trovava, si era voluta permettere una serata mondana offerta da Harper’s Bazar, accompagnatore compreso.

«Del resto,» aggiunse «se nessuno ha avuto nulla da ridire, cos’altro avrei dovuto fare se non approfittarne?».

«Credimi, la novità non mi dispiace affatto» le disse lui. 

Durante la visita Andrea le raccontò delle Sculture viventi, basi di monumenti su cui chi vuole può salire e diventare egli stesso opera d’arte, dell’enigmatico Socle du monde, un piedistallo su cui apparentemente non c’è nulla, ma la scritta capovolta che vi è apposta fa capire che l’oggetto che si poggia sopra è il globo terrestre: «Perché è la base che sorregge il mondo, e non il contrario. E poi, c’è la Merda d’artista, ovviamente…».

Sara era affascinata sia dalle opere, sia dal suo anfitrione, che mostrò nei suoi confronti tutti i riguardi possibili, era chiaro che l’aveva colpito. 

Al buffet bevvero dei drink che accrebbero il feeling e i due decisero di uscire e proseguire la serata altrove. Si diressero verso Brera, fermandosi al Jamaica, dove continuarono a sorseggiare vino bianco freddo. In capo a un’ora, si erano già raccontati le loro vite; poi, forse perché circondati dalla folla che riempiva il locale, lui le parlò all’orecchio e tra una chiacchiera e un’altra avvicinò le labbra al suo collo. Di lì alla bocca il passo fu brevissimo e guardandosi negli occhi si baciarono. Fu un bacio lungo, tenero, appassionato, di quelli che in un attimo capovolgono il mondo e fanno di due persone una sola entità. 

Stretti l’uno tra le braccia dell’altro si diressero, senza profferire parola, verso la casa di Sara e una volta su, continuarono come al bar. Con ardore, ma anche con molta delicatezza, lui, snodata la cravatta, le sfilò l’abito, lasciandola solo con la biancheria intima, lei completò l’opera sciogliendo la coda e, con un colpo di testa, liberò la massa di capelli.

«Non levarti altro, il completo scuro ti dona molto» disse lei, mentre gli sbottonava la camicia, lasciando il petto scoperto. Poi, come se fosse la cosa più naturale del  mondo, fecero l’amore soffermandosi a lungo sui preliminari, una cosa alla quale lei non era abituata e che apprezzò molto.

Propensi a badare al reciproco piacere, in un audace equilibrio al limite dell’orgasmo – quasi un estenuante gioco di forza – Sara e Andrea si adoperarono con successo per giungere simultaneamente al climax. Infine, esausti, sdraiati fianco a fianco, ebbero modo di riprendere fiato e facoltà di parola.  

«Stasera ho finalmente capito cosa sia fare l’amore» disse Sara con la voce roca dallo sforzo, ma languida per la gratitudine.

«Giuro che non finisco tutte le mostre così» la risata che aveva accompagnato le parole di Andrea andò a scemare quando incrociò i suoi occhi, guardarla ansimare l’aveva mutata in un sorriso lieve, quasi assorto. «Sul serio. Mi è capitato con una certa frequenza di fare sesso, lo ammetto, ma ciò che è accaduto stasera è davvero un’altra cosa. Dobbiamo preservare questo prezioso potenziale».

«Dobbiamo?»

«Diciamo che vorrei. Tu?»

«Uhm… Lascia che ci dorma su» nel dirlo, Sara aveva già preso posto sotto al braccio di Andrea, la testa ben accomodata sul suo petto. 

La mattina successiva, consumarono velocemente la colazione che lei aveva preparato, entrambi dovevano correre a lavoro. 

Quando si salutarono, lui indugiò sulla porta «Allora, a stasera?». 

«A stasera, certo» gli rispose lei.

Racconto di Gennaro Castellano / Fotografia di Annalisa Insinna

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Redazione MM

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