«Uccidiamo lo zio»: perché nessuno pensa ai bambini

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Uccidiamo lo zio

Fedeli al motto hic bibitur, WoM Edizioni prosegue il suo inno «all’humor, preferibilmente nero». Dopo 3000 anni fra i microbi di Mark Twain, il catalogo della casa editrice si arricchisce con Uccidiamo lo zio di Rohan O’Grady. A differenza del capolavoro sconosciuto di Twain, il romanzo della O’Grady era ancora inedito in Italia. Solo grazie a un’attenta trattazione con la Bloomsbury la WoM è riuscita ad acquisire i diritti per la traduzione, affidata ancora una volta a Matteo Pinna.

Rohan O’Grady: questa sconosciuta

Nata a Vancouver nel 1922, June Margaret O’Grady si diploma negli anni Quaranta alla Lord Byng High School. Proprio in quegli anni conosce il futuro marito: il giornalista Frederick Snowden Skinner, da cui ha tre figli. Intorno ai quarant’anni O’Grady si decide a dare alle stampe i libri che fino a quel momento aveva tenuto nel cassetto.

Tuttavia, la letteratura canadese è ai suoi inizi e non vi sono ancora editori solidi per garantire una seria diffusione dei romanzi. Non sorprende dunque che le prime case editrici a curare le sue opere siano di Londra e New York. Sono gli anni di O’Houlihan’s Jest, Pippin’s Journal, Or, Rosemary Is for Remembrance e, ovviamente, di Let’s Kill Uncle.

Dopo il successo di Uccidiamo lo zio, infatti, escono solamente altri due libri. Ritirata in vita privata, l’autrice ha la fortuna e la gioia di rivedere la ristampa del suo capolavoro nel 2010 per la Bloomsbury, anche grazie al rinnovato interesse formatosi a seguito di un articolo su The Beliver e The Guardian. Morta nel 2014 all’età di novantadue anni, O’Grady è considerata una pioniera della letteratura canadese e una maestra della narrativa cross-over.

«Uccidiamo lo zio» è un successo

Edito nel 1963, il romanzo – insieme ad altri lavori dell’autrice – Uccidiamo lo zio era stato scritto nei decenni passati. È questo il libro che si aggiudica maggiormente il plauso del pubblico e della critica. È arricchito dalle illustrazioni dell’eclettico Edward Gorey, disegni che s’intonano perfettamente alle atmosfere ricreate dalla O’Grady. Il libro è un tale successo che i diritti vengono immediatamente acquistati per la trasposizione cinematografica del 1966 a cura di William Castle – tradotto in italiano con Gioco mortale.

Il lungometraggio, purtroppo, non riesce ad eguagliare la forza narrativa del libro e oggi risulta un film del tutto dimenticabile. O’Grady, però, non riesce ad imporsi come vorrebbe nel panorama letterario e negli anni Ottanta smette di scrivere.

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La trama di «Uccidiamo lo zio»

Uccidiamo lo zio è un romanzo atipico. Fin da subito il lettore viene catapultato su un’isola paradisiaca non meglio identificata al largo della Columbia Britannica canadese. La terra è florida e gli abitanti vivono le loro giornate in una calma e rassicurante routine. Due giorni a settimana gli isolani si ricordano della terraferma grazie alla presenza del sergente Coulter, chiamato a servizio e gestire i piccoli screzi della popolazione. D’altronde Coulter è nato e vissuto proprio sull’isola ed è l’unico giovanotto ad essere tornato vivo – anche se dopo tre anni di prigionia – dalla Seconda guerra mondiale. Nella piazza principale, vicino al porticciolo, troneggia la stele dei caduti dove sono riportati i nomi di tutti i giovani morti in guerra del paese.

Un giorno, però, la tranquillità viene scombussolata dall’arrivo di due ragazzini. Il primo è Barnaby, orfano ed erede della milionaria famiglia Gaunt, che si trova sull’isola per passare due mesi estivi con lo zio. Ma lo zio di Barnaby ha un imprevisto che lo porta ad intrattenersi più del previsto in Europa. Il bambino intanto è affidato alle amorevoli cure degli anziani coniugi Brooks. I Brooks, in particolare, sviluppano un’adorazione verso Barnaby perdonandogli ogni sorta di marachella, in quanto gli ricorda il figlio Dixie – morto in guerra e coetaneo del sergente Coulter.

L’altra è Christie McNab, figlia di un ubriacone e di una stacanovista rancorosa. La bambina viene spedita sull’isola per passare l’estate con la capraia, un’amica della madre. Si spera che Christie possa recuperare un po’ la buona salute e divertirsi, limando alcuni aspetti del suo carattere così spigoloso. Nell’isola ormai non ci sono bambini da anni e i due vengono accolti come fossero una sorta di rarità. La gente del luogo abituata solo a vedere cacciatori e pescatori di salmone, è totalmente disabituata a trovarsi due marmocchi gironzolare nei loro terreni.

Personaggi intrecciati

Per le prime cento pagine il libro tratteggia la vita dell’isola, sconvolta dall’arrivo di Barnaby e Christie. I bambini combinano ogni sorta di disastro: rompono i vetri della preziosa serra della signora Syddyns, dànno da mangiare gomma da masticare ai cani del signor Allen e pitturano di pois blu il Duca di Ferro, toro da competizione del temuto signor Duncan. Infine, peggiore fra tutte le bravate, uccidono accidentalmente Fletcher, il pappagallo da compagnia della signora Proudfoot. 

In questo ginepraio di mascalzonate più o meno gravi, il sergente Coulter – con l’aiuto dell’inesperto Browning – si trova costretto a sistemare tutti i danni causati dai due piccoli fuorilegge. Seguono assemblee con gli abitanti offesi, mediate anche grazie al supporto del pio reverendo Rice-Hope. Per complicare ulteriormente la situazione, Coulter è da anni segretamente innamorato della moglie del reverendo a cui scrive in segreto una lettera alla settimana che puntualmente non spedisce. Intanto i bambini stringono amicizia con Desmond, un uomo colpito da una malattia in giovane età che lo porta ad avere un ritardo mentale, e con Un-Orecchio, un puma sfigurato a seguito della sua vita errabonda. E rimane comunque sorprendente, poi, come O’Grady riesca a connettere tutti i personaggi e renderli fondamentali, ognuno a modo suo, per la vicenda finale.

Il nuovo Twin Peaks

Nel pubblicizzare il libro, WoM ha spesso riferito che si tratta di un romanzo sicuramente apprezzabile dai fan della serie cult Twin Peaks. Una promessa che, al momento, sembrerebbe davvero difficile da rispettare e piuttosto pretenziosa. Eppure è lampante – soprattutto nella prima parte – come le atmosfere ricordino quelle del capolavoro di David Lynch.

In entrambe le opere viene enfatizzata la satira, senza che essa sia però totalizzante, verso alcuni generi – nel primo il romanzo di formazione e sentimentale, mentre nel secondo la soap opera. Uccidiamo lo zio non si accontenta di ironizzare e strutturare una critica fine a stessa verso alcune convenzioni. Lo spunto umoristico serve come propulsore per strutturare una storia macabra, circondata da un alone di apparente serenità.

Il talento di O’Grady consiste proprio nel fatto di immergere il lettore in una realtà parallela, eppure riconoscibile, che ricalca gli ideali di un’età vittoriana ormai già tramontata. Alcune scene tratteggiate dall’autrice ricordano delle vere e proprie cartoline prese dalle migliori illustrazioni di Rockwell. Proseguendo il discorso, non è un caso che Barnaby si trovi a leggere le vecchie riviste di Dixie, fra cui emerga principalmente Chatterbox. Si tratta, appunto, di una rivista di origine vittoriana dedicata ai bambini che raccoglieva storie e articoli mirate ad educare i giovani secondo un certo modello morale. Come giustamente precisa Theo Schell-Lambert:

All’inizio, il romanzo sembra gettare un occhio severo sui protagonisti bambini; ci aspettiamo di assistere presto ad una punizione da parte degli adulti. Ma i loro crimini diventano sempre più plateali e frequenti perché i critici siano in grado di sopportarli. Nell’aggravare le marachelle dei protagonisti, O’Grady fornisce loro una sorta di potere.

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Non avete mai letto nulla del genere

Nonostante la figura dello zio emerga in maniera abbastanza preponderante solo nella seconda parte, già dal titolo il lettore percepisce – fin dal primissimo accenno – che dietro quella maschera di comprensione e gentilezza si nasconde un mostro (o meglio, una sorta di metafora di un lupo mannaro, come si fa più volte intendere). Tuttavia, un dubbio – almeno all’inizio – emerge. Lo zio è davvero così malvagio oppure è un’esagerazione della vivace mente di Barnaby?

È palese come O’Grady non voglia nascondere l’essere diabolico del tutore di Barnaby, che ben presto si scopre essere l’unico parente ancora in vita. Il ragazzo, infatti, è l’erede dei Gaunt e c’è un patrimonio di ben dieci milioni di dollari che lo attende al suo ventunesimo anno di età. Nel frattempo lo zio, il maggiore Sylvester Murchison-Gaunt, guadagna sugli interessi del deposito. Atletico, altero ed esperto di occultismo e arti marziali, questo famigerato zio diventa qualcosa di impossibile da abbattere. Col suo fare scaltro e i suoi occhiali da sole, incarna le paure ancestrali. I segni di terrore e di morte che lascia lo zio in maniera consapevole ricordano a tratti anche il capolavoro di Witold Gombrowicz, Cosmo.

Una trama a più livelli

Altro elemento edificante per l’intera narrazione, poi, sono le decine di storie che vengono raccontate, le quali non sempre risultano dirimenti per lo svolgersi della trama principale, ma che comunque costituiscono sicuramente un arricchimento dell’intera opera. La storia del marito della signora Syddyns, le ricette della capraia, l’amore di Coulter e la sua amicizia con l’archeologo Hobbs; la riserva indiana e il fatto di cronaca nera che vede protagonista il giovane psicopatico Gitskass Charlie… sono tutti camei che rendono la lettura sì scorrevole, ma soprattutto vivida.

Il lettore non perde di vista la vicenda principale, eppure si compiace nel vedere ricomparire di tanto in tanto i suoi personaggi prediletti. O’Grady non si dimentica proprio di nessuno e il cerchio, quando si chiude, contempla tutti al suo interno.

Perché leggere «Uccidiamo lo zio»

Leggere lavori come Uccidiamo lo zio (acquista), dunque, è un’esperienza a cui dovremmo essere più abituati. Un romanzo piacevole che, però, non si limita ad intrattenere il pubblico. Durante la lettura affiorano talmente tante suggestioni che non è sempre facile coglierle.

Sicuramente un’opera che regala moltissimo alla prima lettura, ma che tuttavia ne merita una seconda – e una terza, perché no? – per comprenderne davvero la portata innovativa. Solo leggendo O’Grady si capisce come molti libri e film che abbiamo apprezzato e amato siano figli proprio di Uccidiamo lo zio.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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