«Il valore affettivo»: il disagio emotivo della perdita

Uno specchio della realtà dell'esistenza umana

9 minuti di lettura
Nicoletta Verna il valore affettivo

Nicoletta Verna, classe 1976, si occupa di comunicazione e web marketing nel campo editoriale. Il valore affettivo (2021), edito da Einaudi, è il suo romanzo d’esordio, che le è valso il riconoscimento della Menzione Speciale della Giuria della XXXIII edizione del Premio Italo Calvino. 

La protagonista del romanzo (acquista) è Bianca, una bellissima giovane donna che, in tenera età, perde la sorella maggiore, Stella, in circostanze poco chiare. Suo marito è Carlo Del Re, uomo di successo, cardiochirurgo, viso da prima pagina del New York Times. Si sono conosciuti all’università: lei, studentessa, lui, docente. 

A partire dai suoi sette anni, nessuna scelta di Bianca è casuale. Si tratta dell’anno di svolta, in quel frangente in cui il momento prima è infanzia, leggerezza, bellezza, e il momento dopo è trauma indelebile che segna la sua esistenza. 

Quel giorno, sua sorella muore. E da allora: «anche il fatto che ogni tanto mia madre cerca di uccidersi è diventato un’abitudine, come più o meno tutto il resto».

«Il valore affettivo» : la trama

Stella muore nel momento in cui Bianca disputa una gara di nuoto. Una promessa tra bambine, un senso di colpa che segnerà la vita di una donna adulta. I genitori, profondamente segnati dal lutto improvviso, non sono in grado di dare l’affetto e l’attenzione dovuta alla loro unica figlia. La madre di Bianca gestiva una lavanderia, ma a seguito della morte della primogenita la chiude, e inizia un percorso verso gli inferi che la conduce a vari tentativi di suicidio. Il primo, a un anno di distanza dalla morte di Stella, che vede la piccola, indifesa, Bianca trovarla in un lago di sangue nel loro bagno. 

La madre, perno del dramma familiare, è completamente assefuatta dal vuoto guardare – mai osservare, mai studiare, mai comprendere – immagini ripetute e ripetibili nella televisione. Solo in questo modo Bianca è in grado di attrarre l’attenzione della madre verso la sua persona: un urlo disperato che non è in grado di motivare, e si riassume nel “Guardami, esisto”. Così, bella, giovane, profondamente triste, diventa soubrette di un popolare show. E la madre la vede, la osserva, attraverso lo schermo. Primo e ultimo contatto fra le due dalla morte della sorella. 

Poi l’università, l’incontro con Carlo Del Re e la relazione. Non casuale: ma voluta. Carlo, bello, giovane, irraggiungibile, con cellule, geni e cromosomi che possono portare Bianca ad avverare il suo unico, immenso obiettivo: dar nuovamente vita alla sorella. 

Il senso di colpa

L’ossessione per la morte della sorella è una costante nella vita di Bianca – l’unica risposta fisiologica possibile alla tristezza, alla disperazione e al senso di colpa è l’estenuante ricerca della perfezione. Una ricerca che la conduce a un disturbo ossessivo-compulsivo. Parte dal bisogno di catalogare, pulire, ordinare. Una macchia nella sua vita perfetta, un vizio che nasconde un inferno interiore che non è in grado di esternare. Acquistare compulsivamente al fine di separare la carta dalla plastica, il tetrapak dall’organico. La materia è rifiuto e il rifiuto deve essere organizzato, catalogato, separato, buttato. 

La causa della sua malattia è la morte della sorella e il senso di colpa che l’attanaglia. Una lontana festività invernale, una vicina con una Barbie bellissima. E una morte che ne è la conseguenza. Per Bianca, una seconda morte: quella della madre e la sua, causa ed effetto di quella perdita.

Ma la redenzione esiste. Tutto procede secondo i piani: Carlo è l’uomo perfetto, l’unico che può aiutarla a portare a compimento il suo piano. Ma Bianca non può avere figli, cerchio che tragicamente si chiude con l’ennesima delusione. Il dramma familiare, il primordiale, che instancabilmente si ripete: dalla madre, che concepisce due figlie amate, desiderate, volute, la cui perdita la porta all’estrema apatia, fino alla figlia, unica superstite, che non è in grado di mettere alla luce l’unica cosa che porterebbe la madre nuovamente alla luce: una figlia, uguale e speculare a Stella

La perdita ricorrente

La ricerca disperata di Bianca verso il raggiungimento dell’obiettivo finale è il tassello conclusivo della sua malattia, un disturbo ossessivo compulsivo che la trascina nella disperazione più totale, fino a giungere a rovistare tra i cassonetti per pulire, ordinare, organizzare, differenziare. Nei suoi abiti firmati, lontana dal suo attico in centro a Roma, lontana dall’agenzia di comunicazione in cui lavora. Dentro al cassonetto fruga in maniera forsennata, apre buste di putrida spazzatura, assaggia pezzi di cibo per comprenderne la natura e catalogarlo secondo la sua disposizione mentale. È il suo inferno terreno, risultato di un’intera vita controllata, ordinata, differenziata. Sua sorella è morta, non tornerà mai più.

Non so se nelle circostanze della vita c’è un momento esatto in cui qualcosa diventa inevitabile; il punto di stallo fra il prima e il dopo in cui puoi dire ecco, fin qui sarei potuto intervenire per cambiare il corso degli eventi, e da qui in poi non più. So però che la ‘disgrazia’ ebbe un insieme di prodromi complessi, in apparenza scollegati eppure perfettamente conseguenti l’uno all’altro, come una catena, come i rifiuti che ogni giorno catalogo con cura.

La salvezza attraverso la malattia

L’autrice catapulta il lettore nei meandri del dolore umano, in tutte le sfaccettature della realtà: realtà crudele, realtà che tutto prende e niente regala, realtà che graffia, obnubila, fagocita. Il puro realismo si amplifica nel quotidiano: il lutto, il dolore, la sofferenza, la ricerca disperata della salvezza.

Una salvezza che passa attraverso la malattia: quella della madre, psichiatrica, e la sua, patologica. Una malattia che si sfoga nella necessità dell’ordine e del controllo. E si mescola alla malattia fisica, l’infertilità. 

Poi la ricerca disperata di un’ultima salvezza: l’inseminazione, nonostante la gravità della sua condizione e i rischi che ne conseguono. La ritrosia di Carlo. La perdita finale: non solo la morte della sorella, ma anche della futura figlia, che avrebbe infine riunito tutti i pezzi, eliminato il dolore primordiale e dato nuova vita alla famiglia. 

Continuo a pensare a chi se ne va e a chi resta e al loro trait d’union più evidente: gli oggetti. L’immagine più nitida della morte sono gli oggetti che le persone lasciano, con quello che chiamano valore affettivo. Oggetti comprati nella convinzione che si sarebbero usati. Oggetti che restano mentre tu te ne sei andato, beffardi inutili oggetti crudeli che ti sopravvivono e ricordano la tua vita a chi resta, stabili oggetti nel magma incomprensibile della memoria: per questo li amiamo e insieme ne siamo atterriti.

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Giulia Lamponi

Giulia, Bologna, studentessa di Lettere Moderne, amante della letteratura, aspirante giornalista. Ogni tanto scrive, ma più che altro pensa.

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