L’accendino verde salvia

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Mi sveglio nell’incavo del suo braccio, ma ci siamo addormentati slegati. Lei a un certo punto della notte si spostava e mi diceva: «Dormo un po’ da sola». Così ho lasciato che si sfilasse dal tiepido della mia carne e mi sono raffreddato presto. Avvolto nella pelle d’oca e i peli dritti tutti insieme, dormivo un po’ da solo anche io quando la sua massa di capelli si scostava dal mio petto, come una tela pesante, fibrosa, dall’odore forte di vigne fitte e ferme in accordi antichi.

Mi sveglio che non sento più il braccio, con Enea che mi respira sopra e, se ingrossa il torace, mi sembra di sprofondare fino al legno delle doghe, di attraversare un materasso di piume sciolte e correre il pericolo di spezzarmi la schiena. Il mio petto faceva scudo quando il suo premeva contro e allora risucchiavo l’ombelico senza farmene accorgere, contraendo di poco i muscoli dell’addome. Le sue labbra sono rilassate e umidissime, ma qualcosa lo turba in quel casco di pensieri che non si ricordava di togliere neanche prima di andare a dormire. Intanto, russando a bocca semiaperta sulla parte interna del mio braccio, sembra che stia per strappare a morsi il tatuaggio del mio fiore e mi piace pensare che volesse distrarmi da me, intuendo che quel simbolo mi avrebbe ricordato di ritornare da dove ero venuta.

«Za, perché questo fiore si chiama “non ti scordar di me”?».

«Perché è celeste, Enea».

«E quindi?».

Il celeste per i petali tatuati e il borgogna dei suoi slip, perché lei ci teneva a distinguere il colore esatto delle cose, più di quanto ci tenesse a dargli un nome. Perciò c’è il celeste e c’è il borgogna e per il resto Zaira è nuda, e nudo è tutto quello che tocca, il cuscino, gli anelli, io. Odora ancora più di vino primitivo e, anche se non è più intrecciata alla mia gamba come una sghemba vite rampicante ma si è sistemata poco distante, immagino che stia ragionando su una di quelle questioni che le cavava il volto, da sotto quel suo già finissimo strato di carne olivastra. Ma lei, dignitosa, non muove nemmeno un dito e si lascia seccare ovunque, mentre cerca di dominare certi pensieri storti e insicuri, venuti male al mondo. 

Ho sempre creduto fosse destino, senza avvertirne mai bene il colore, ma è certo per me che, a un certo punto, permetto che la solitudine mi richiami a sé, fluidamente, senza più protestare. Deve conoscerla anche Enea la sensazione, eppure non gliel’ho mai chiesto. Però deve essere come dico, per via dei suoi occhi mare lontano e chiaro, che a guardarli la prima volta pensai che lì avesse potuto abitarci solo lui.

Zaira si alza col busto e io posso distinguere qualche vertebra; poi si volta e mi sorride riposata. L’afferro per il collo con forza, mentre lei, dalla fierezza della postura che aveva assunto dopo essersi stiracchiata, una vertebra per volta a salire fino alla nuca, passa alla tenerezza della sua resa corporea. Le piacevano le mie spalle perciò mi chiudo, con lei dentro, perché così non sarebbe andata da nessuna parte. Quella volta non ci prova nemmeno, pure perché mi faccio cedro e cerco di astringere la sua pelle irritata come fa una lattina di cera.

«Sei una randagia».

«Guarda chi parla dalla sua tana di foglie».

Solo qualche ora prima ballavo fra le ombre delle tapparelle che il tramonto gettava sul parquet dell’appartamento di Enea. Ogni volta che mi trovavo lì a quell’ora, le calpestavo scalza perché mi disturbava l’idea della loro rigidità. Ma niente era severo in quelle ombre e allora finivo per partecipare alla loro estetica, incominciando a muovermi anche se non c’era la musica; se c’era, però, era più soddisfacente. Era il gioco delle righe disegnate a terra dal sole basso, che incontravano sul pavimento la proiezione delle mie mani, e delle gambe che le tagliavano in obliquo, come per attraversare un ponte inventato. Ma poi ero costretta a radicare, lenta, le piante dei piedi sul liscio dei listelli, perché un ammasso di natura umana e attraente mi guardava abbandonato sul divano, un animale perso e bellissimo mi teneva d’occhio da sotto il suo ciglio. 

Le devono aver raccontato male la storia del lupo, del bosco e tutto il resto appresso perché era ancora così bambina quando alzava i pugni senza avversari, perché a volte tremava come il più sottile tra i fili d’erba, come un singolo e svestito filo esposto in un campo di grano raso al suolo. Era ancora bambina quando ricontrollava che dietro di lei non ci fossero mostri e tirava un sospiro e si faceva la coda. Eppure una donna fatta era davanti a me quando muoveva i fianchi al tramonto, anzi sembrava che si facesse donna proprio davanti al mio sguardo consolato, pezzo dopo pezzo, che si montava e smontava in quella figura disinvolta e piena di sangue nascosto che sapeva farsi esile o diffidente come nessuna. 

Gli accarezzo i capelli visto che li ha più arruffati e poi passo a tutta la barba e a quel marrone denso e coerente, scuro e sicuro che, solo quello, era già un bel posto in cui fermarsi. Allora mi viene improvvisamente in mente di restare, con la convinzione che fosse così assurdo tentare ancora di aver salva la pelle fuori da quel posto, come se l’idea sgraziata dell’appartenenza, tutt’a un tratto, avesse finito di sfinirmi. Quella sera sono uscita da me, come un’anima da una stagione esausta, proprio per via della grazia di Enea. E sono felice, e gli chiedo di scendere a prendere aria scelta, al molo, e di tenerci la mano come due che ci tengono, ma questo non glielo chiedo, lo faccio e basta. 

Zaira ha gli occhi lucidi per l’umidità e le sue ciglia folte si sono rilassate, come quelle frange di rafia che lasciano grezzo il bordo di un cappello. Glielo dico e lei si scosta il ciuffo come se volesse aggiustarsi per una fotografia, se lo porta dalla parte opposta. Levando le dita dalle ciocche alla maniera di un pettine, si inumidisce ogni tanto le labbra, forse per la vista dell’orizzonte salato, ma nulla le importa di più del mio visto intero, lei col suo sguardo incostante, che si sforzava sempre a essere distratta. Le dico anche che ho adorato il modo in cui quel giorno aveva parlato con Ale, il mio migliore amico, come se fosse il suo, e la prendo in giro su qualcosa, lo faccio con gusto chiedendole poi da accendere, sicuro che mi dicesse di no. 

Influenzata dall’abbondanza della luna, che ne è stata testimone, tiro fuori dalla borsetta l’accendino verde salvia. Gli accendo la sigaretta personalmente mentre, divertito, mi fissa aspirando. La cenere sulla punta brucia, poi Enea caccia di lato il fumo senza nemmeno afferrarla con le dita, perché cerca tra le mie mani quel piccolo oggetto che tutte le volte non voleva restituirmi. Non gli ho mai chiesto perché lo volesse tenere e, a pensarci bene, ci siamo chiesti poco, perché si rischiava di farsi male. Ma quella sera al molo certe parole si distinguono comunque, quasi per effetto dell’estraniante condensazione di un’estate che collassa. 

«Non ti so tenere, Zaira».

«Non mi devi tenere».

«Tu sai farlo?».

«Stasera sei strano».

«Dico: due persone, no? Come fanno a tenersi, due persone così?».

Enea conserva ancora l’abbronzatura vecchia di qualche settimana e i suoi denti sono più bianchi della camicia che indossa, di tre bottoni aperta. Lui parla muto, così io penso ad altro e mi tranquillizzo meditando sui colori: celeste come la nostalgia del “non ti scordar di me”, borgogna dell’intimo e di un vino a bacca rossa, verde salvia come il mio accendino. Mi assicuro di averlo rimesso a posto e continuo a riflettere, solitaria e disattenta, sul fatto di non averci messo niente a stare, quella volta; anche se lui non mi teneva sempre, proprio perché non mi teneva stretta, proprio per colpa di quel suo tenersi l’anima senza trattenere le mani. 

Questo pensiero mi accompagna fino a molto tardi, che avverto l’urgenza di risalire dal letto per guardarmi allo specchio. Qui, scavando nella distanza di quello sguardo che mi si è espresso stanco e sbiadito davanti, mentre l’elegante Luna del Cacciatore batte ancora sul vetro, vi ritrovo viva la fiamma del randagismo e mi sento bruciare come un narciso di fuoco. 

Può essere lasciato qualcosa che non si è mai tenuto?

Zaira torna a dormire da me quella notte. Il suo profilo sul mio letto è bollente e dal bagno, seduto sul bordo della vasca da qualche mezz’ora, col palmo serrato della mano sinistra, la vedo essere in un sogno solo suo. 

Le avevo messo le mani in borsa, appena mi sono accertato che lei fosse profondamente altrove. La zip era aperta, ma la borsa troppo stretta che il metallo mi ha addentato il polso; allora ho fatto presto, trattenendo il fiato. In camera si sente solo il suo, di fiato, che le si gonfia dentro e finisce per sfumarle dal naso a un ritmo caldo e costante. Quando mi scappa un sospiro non mi preoccupo, neanche mi volto a controllare la fessura ammorbidita dei suoi occhi; perché lei sul fianco non si sveglia, sul fianco si abbandona. E io, dopo averlo trovato, faccio lo stesso, ma ho dimenticato da quale lato del letto mi sono abbandonato. 

L’ho preso per farle un dispetto. Perché con la notte se ne sarebbe andata, perché avrebbe lasciato il lenzuolo così poco stropicciato per il peso lieve, che un solo colpo l’avrebbe rimesso a posto, come se non fosse mai passata, come se fosse normale che all’alba sarebbe stato tutto indifferente. L’ho fatto perché se si fosse accorta di averlo perso quella volta, avrebbe pensato al tabacco arrotolato tra le mie labbra e alla cosa sulla quale l’ho presa in giro e che non riesco a ricordare. Avrebbe pensato, ancora, al suo corpo contundente rivolto contro il mio, ruvido, spaesato.

E qualcuno dovrebbe dirglielo che ce l’ho io, nel palmo chiuso, il suo stupido accendino verde salvia, senza più un alito di gas. Che ce l’ho ancora, come inutile prova di esserne capace. Di saper trattenere.  

Racconto di Annarita Genova

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Redazione MM

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