L’arte del ventesimo secolo

«Chi diavolo ha fatto quel film?» di Peter Bogdanovich

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«Chi diavolo ha fatto quel film?» di Peter Bogdanovich

Chi diavolo ha fatto quel film? di Peter Bogdanovich è una testimonianza, un libro fondamentale per chiunque voglia conoscere cosa è stato davvero il cinema. Tramite sedici interviste viene riscoperto il valore della settima arte grazie a registi che hanno sviluppato la propria sensibilità artistica dal muto al sonoro, raggiungendo vertici ineguagliabili.

La riedizione de La Nave di Teseo, con la traduzione di Roberto Buffagni, restituisce tutta la meticolosa passione di Bogdanovich per il cinema. Già allievo di Stella Adler – maestra di recitazione, tra gli altri, di Marlon Brando –, si avvicina fin da subito al mondo dello spettacolo. Nemmeno ventenne intrattiene le prime interviste importanti e cura i primi articoli e retrospettive per musei e archivi. Anche quando diventerà un regista affermato, non smetterà di conoscere e approfondire l’opera dei maestri del passato a cui cercherà di rendere omaggio in molti dei suoi film.

Omaggio ai pionieri del cinema

Così Chi diavolo ha fatto quel film? diventa la ricerca inesauribile per tracciare una mappa artistica dei registi che hanno fatto del cinema un’arte. Per Bogdanovich gli intervistati non possono essere che dei pionieri:

I primi registi appartenevano a una razza fortunata che s’imbatteva in un mestiere per il quale nessuno aveva ricevuto una istruzione formale, e che nessuno ambiva a fare, per il semplice fatto che non esisteva: era dunque un territorio inesplorato, senza carte geografiche, senza regole e senza limiti.

Le interviste sono all’apparenza eterogenee. Idealmente si dividono in due macro categorie che, soprattutto a causa della mole di materiale, sono libri intervista o articoli di approfondimento. I contributi si strutturano in base agli incontri fatti fra Bogdanovich e il regista di riferimento e la disponibilità di quest’ultimo a parlare della propria opera.

L’enciclopedia del regista

Il libro raccoglie dunque le esperienze di ben sedici registi, superando le mille pagine. In questa colossale opera vengono raccolti decenni di interviste e di minuzioso lavoro di trascrizione ed elaborazione. Il lettore potrà imbattersi nei monumentali capitoli dedicati ad Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Fritz Lang.

Con la consueta ironia, il regista di Psycho rivive tutta la sua opera e si concentra sugli espedienti tecnici e sul rapporto con gli attori. Così, Hitchcock svela alcuni sottotesti de La donna che visse due volte oppure precisa come:

Una volta che cominci a lavorare, gli attori non devono essere in soggezione del regista, né il regista in soggezione degli attori. Ci dev’essere una certa cortesia, e ci dev’essere una certa deferenza.

Hawks, invece, con una predisposizione rara racconta tutto della propria arte. Un eclettico che prende il meglio da ogni genere, anche il più bistrattato, e lo trasforma in un capolavoro. È così che nascono Scarface, Susanna!, oppure Gli uomini preferiscono le bionde o Un dollaro d’onore. Hitchcock e Hawks sono stati valorizzati solo dopo un’attenta e appassionata analisi dei critici e cineasti francesi su Cahiers du cinéma.

E ancora Fritz Lang che, nonostante risulti irascibile, intrattabile e dispotico, dona al cinema fra i più grandi capolavori mai realizzati, primo fra tutti M – Il mostro di Düsseldorf. Lang, anche con gran gusto e tatto, accompagna lo spettatore nei meandri della psiche umana. Come lui stesso precisa:

Io costringo il pubblico a collaborare con me: suggerendo, ottengo un’impressione, un coinvolgimento più forti che mostrando.

Unito dal destino di altri registi come Billy Wilder, Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer e William Dieterle, anche lui ha lasciato l’Europa, trovando il proprio spazio a Hollywood. In America ritrova una nuova dimensione e riprende alcuni dei temi a lui più cari, come la giustizia e il destino, in lungometraggi dal forte impatto come Furia, Il grande caldo e Quando la città dorme.

D’altro canto, ci sono interviste più lapidarie, di cui fra tutti spicca quella a Josef von Stenberg, autore del meraviglioso L’angelo azzurro con Marlene Dietrich, che definisce tutti i suoi film come “astratti”. Un’insofferenza manifestata a qualunque domanda, che invece non trova un corrispettivo in Raoul Walsh, che preferisce discorrere sulla propria giovinezza scapestrata e della sua irruzione quasi causale nel mondo del cinema.

Oppure Leo McCarey, costretto a un letto d’ospedale, che ricorda la sua intuizione di creare la coppia Laurel & Hardy e la realizzazione di uno dei suoi capolavori, Cupo tramonto – per Orson Welles, era un film capace di «far piangere pure le pietre».

La dignità del cinema

Peter Bogdanovich, regista anche de L’ultimo spettacolo e di Paper Moon, ha una sensibilità che travalica i confini di questa dichiarazione d’amore che è Chi diavolo ha fatto quel film? Tra gli altri, si ricordano anche i suoi libri dedicati a Orson Welles e John Ford, non contenuti nel volume edito da La nave di Teseo, ma sempre e comunque citati e ricordati durante le sue riflessioni.

Bogdanovich è consapevole, insieme agli altri registi, del valore indiscusso dell’immagine e così vengono richiamati le lezioni intramontabili di Ernst Lubitsch e Jean Renoir. Come lo è, d’altronde, per il montaggio. Ėjzenštejn e Pudovkin vengono ricordati in più occasioni come maestri che hanno rivoluzionato un mondo donandogli una dignità artistica.

Chi diavolo ha fatto quel film? (acquista) è il racconto mitico di un cinema che non esiste più. Pochi registi contemporanei hanno saputo cogliere l’eredità di questi giganti del grande schermo, cimentandosi in un’arte che, a volte, non sapevano nemmeno loro dove avrebbe potuto condurli.

Una nuova arte

Come diceva Orson Welles, il cinema è l’arte del ventesimo secolo e molti non potevano sottrarsi al suo richiamo. Ognuno di questi sedici esploratori della pellicola aveva una voce ben distinta. Uno stile perfettamente riconoscibile, come nel caso del Lubitsch touch: la capacità di porre un’impronta riconoscibile, un sigillo indistinguibile su ogni lavoro.

Ognuno ha cercato di raggiungere uno stato di grazia e ciascuno dei registi intervistati, compreso lo stesso Bogdanovich, ci è riuscito. In queste interviste c’è il cinema del passato, ma anche una lezione incomparabile per gli addetti ai lavori e i cinefili di oggi.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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