Il tepore della Scuola di Culinaria Sapore e Arte, la voce soave delle comari, l’aria allegra e sempre carnevalesca di Bahia: questo è il mondo di Dona Flor, creatura dalle mani carezzevoli, timida e devota. Jorge Amado, attraverso una scrittura magistrale, ci conduce passo dopo passo nell’universo della protagonista, fatto di olio di dende, travolgenti passioni, serenate alla Luna e dichiarazioni incise su lettere profumate.
Prima d’essere un romanzo, Dona Flor e i suoi due mariti è un lungometraggio dal gusto picaresco, un testamento d’amore e di tenerezza dedicato alla vita lenta ed incredibile -ma anche incredibilmente lenta – del proletariato brasiliano nei primi anni sessanta. A condire il tutto (e Dona Flor ci ricorda che i condimenti sono importanti) c’è la magia ed il folklore tipico della letteratura latinoamericana, che proprio in quei fortunati anni sessanta prendeva l’abbrivio definitivo che l’avrebbe poi consacrata a fenomeno mondiale.
Il primo amore
Senz’amore non posso vivere, senza il suo amore. Meglio morire con lui. Se non lo avrò vicino a me, andrò, piena di disperazione, a cercarlo in tutti gli uomini che mi si pareranno dinanzi, cercherò il sapore della sua bocca in ogni bocca; ululante, affamata lupa correrò le strade. La mia virtù è lui.
Disperata per la perdita del marito Vadinho, la notte dei festeggiamenti di Carnevale, Dona Flor crede che non sarà più in grado di tornare ad amare. Davanti ai fornelli della sua Scuola di Culinaria Sapore e Arte, sempre rumorosa e grassa di pettegolezzi, la giovane riflette sul suo rapporto col defunto consorte. A tratti è nostalgia per le brecce di sensualità che Vadinho apriva nella sua tenerezza, in altri momenti è il sentimento vivo e pungente della vergogna di essere stata la sposa di un uomo scolpito dai difetti. Difatti, ogni notte Vadinho beve, gioca, sperpera e tradisce, per poi tornare dalla sua sposa nel guscio dell’alba, sussurrandole:
«Solo tu sei per sempre, Flor, solo te sono capace di sopportare. Il resto è tutto xixica per passare il tempo».
Vadinho, «pazzo e tiranno, fuoco e brezza», prende possesso del cuore e del senno di Flor, attributi fragili e sconcertanti, senza riservarle delicatezza. Non passerà molto tempo, dunque, che il seme dell’amore di Flor per il consorte, da principio così genuino e illusorio, si scontri con le asprezze della vita matrimoniale. Tra calderoni di latte di cocco e granchi, Flor è perciò trasmutata nel Romeo di Shakespeare, intento a pronunciare le celebri parole: «L’amore è una tenera cosa? È troppo rude, troppo brutale, troppo aspro e punge come una spina».
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Come una spina
All’interno di questo romanzo eclettico (acquista), non è soltanto l’amore a pungere come una spina, ma anche l’ironia che corre tra le pagine, a sottendere le corde di un Brasile povero ed incantato. Amado, difatti, crea un’opera capace di suscitare un sorriso dopo l’altro nel lettore, senza impoverire la trama né i temi, che anzi traggono forza da quest’ironia divertita. A questo proposito, una diade alla quale vengono riservati tra gli scambi più divertenti ed esilaranti, è quella che contrappone Vadinho alla madre di Flor, Dona Rozilda, spassionata arrampicatrice sociale, che vive il matrimonio della figlia come un detestabile fallimento. Flor, innamorata e divertita da questa opposizione, racconta di Vadinho:
Come la vedeva in atto di spettegolare, s’abbandonava alle risate, mostrando la più grande soddisfazione, quasi fosse stata, la suocera, la sua visita preferita, quello scostumato:
“Guarda guarda chi c’è: la mia suocerina santissima, la mia seconda mammina; questo cuor d’oro, questa colomba senza fiele. E la linguina come sta? Sempre ben affilata? Sieda qui santa donnina, vicino al suo generino preferito, che ci mettiamo a razzolare in tutta l’immondizia di Bahia…”
E rideva, con quella sua risata sonora e allegra d’uomo smaliziato e soddisfatto della vita…
Ed ancora, rivolgendosi alla sua sposa, Vadinho dice:
Tua madre è un vecchio fossile, non ha ancora capito che nella vita quel che conta sono l’amore e l’amicizia. Il resto è tutto paccottiglia, presunzione, non vale la pena…
Il secondo amore
Sicuramente più desiderabile per Dona Rozilda è il secondo amore di Flor, colui che riempirà il vuoto lasciato da Vadinho. Dopo il fuoco e la brezza, e forse in forza di essi, Flor decide di andare per le acque chete, accettando la proposta di matrimonio del Dottor Teodoro, una personalità da colletto inamidato e discrete dimostrazioni d’affetto. Egli, morigerato farmacista, è perfettamente riassunto nella «dichiarazione di principi chiaramente espressa», in forma di aforisma appeso al muro sopra il suo tavolo di lavoro «Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto».
Non c’è dunque più spazio per la xixica, ma solo tempo per un amore premuroso, leale, sincero, dal quale scaturisce una «vita quotidiana di bonaccia, monotona e insipida materia antiletteraria». Ma sarà proprio questa nuova dimensione, questo nuovo cadenzato respiro, che coloreranno la giovane Flor d’incertezze:
Zucchero, sale, formaggio grattugiato, burro, latte di cocco, di quello più acquoso e di quello più denso – ci vogliono tutti e due. Mi dica un po’, lei che scrive sui giornali, perché si deve sempre avere bisogno di due amori, perché uno non basta a riempire il cuore?
Poiché il ricordo di Vadinho, così ironicamente posto accanto al vivo presente di Teodoro, non basta a riempire il cuore di Flor, presto il primo amore comincerà ad apparire, prima in sogno e poi come fantasma nella quotidianità della protagonista, andando ad occupare quello spazio di cuore lasciato sgombro dal dottore. Ed eccoli dunque i due amori, ubicati nello stesso luogo, vissuti dalla stessa giovane anima, eppure così in contrasto tra loro, così sensazionalmente diversi.
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«Tra l’amore sacro e l’amor profano»
Flor si rivolgerà alla magia, cercando di sfondare la parete che separa i vivi dai morti, chiedendo di essere liberata dalla veemenza di Vadinho, così beffardamente agli antipodi con il piglio casto di Teodoro. Ma nonostante santi e stregoni, macumbe e pleniluni, Flor non riuscirà a liberarsi di questo doppio peso nel cuore. Sarà soltanto sul finale che ella comprenderà che non deve liberarsi, che ha bisogno di entrambi e dell’equilibrio vitale che le conferiscono. Perché, come dirà Dona Flor stessa: «La mia forza è il tuo desiderio, il mio corpo la tua voglia di me, la mia vita è il tuo volermi, se non mi vuoi non sono più». Rimarrà così in perpetua oscillazione (eppure perfettamente salda) tra Teodoro e Vadinho, tra il dionisiaco e l’apollineo; «tra l’amore sacro e l’amor profano», nelle parole di Fabrizio De André.
La storia di Flor è dunque riflessione, presa di coscienza, testimonianza della natura assoluta ed irrinunciabile dell’amore nelle vite degli uomini. Perché, in fondo, «Non è forse amando che ho imparato ad amare, non è stato vivendo che ho imparato a vivere?».
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