La paura come consapevolezza del sé in «Mandibula»

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La paura è il sentimento più atavico dell’umanità. È un’emozione che affiora quando ci si trova di fronte a un imminente pericolo, mette l’essere umano di fronte alle sue fragilità; ed è anche espressione del terrore per tutto ciò che è ignoto. Paradossalmente, la paura dev’essere accolta per affrontare i propri limiti, poiché permette di intraprendere un cammino di crescita e maturità. Mónica Ojeda – autrice ecuadoriana classe 1988, inclusa nella prestigiosa lista Bogotà 39 per autori sudamericani under 40 nel 2017 – descrive molto bene questa sensazione ancestrale in Mandibula, romanzo del 2018 pubblicato in Italia nel febbraio 2021 da Alessandro Polidoro Editore con traduzione di Massimiliano Bonatto.

«Mandibula» di Mónica Ojeda: la trama

La storia del romanzo si svolge nei pressi di Guayaquil, città natale dell’autrice, situata in Ecuador nelle vicinanze delle Ande. Clara – insegnante di lettere della scuola bilingue Delta High School for Girls, istituto privato femminile gestito dall’Opus Dei locale – rapisce senza un apparente motivo la sua alunna Fernanda, che all’inizio del romanzo troviamo sedata e legata in una baita abbandonata.

Leggendo l’incipit del romanzo, Mandibula può sembra un semplice thriller psicologico con qualche elemento horror, che molto deve ad autori come Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft – verso cui l’autrice nutre un profondo debito, come dimostrato dalle citazioni in esergo – o scrittori più contemporanei come Stephen King. In realtà, Mónica Ojeda racconta una storia che cerca di analizzare le ragioni della paura, andando a scavare nel contesto sociale e familiare in cui vivono i personaggi.

Il «gotico andino» tra creepypasta e indagine sociologica

Mandibula di Ojeda rientra in quello che è stato definito come “gotico andino”. Esso è un genere letterario che, seguendo il principio di Lovecraft secondo cui «l’orrore è nell’atmosfera», fonde la tradizione classica della letteratura horror con l’oralità e il folklore delle Ande sudamericane. Questi ultimi sono ben radicati nel paesaggio montuoso, forestale e vulcanico di quella realtà che – come dichiarato in varie occasioni dall’autrice – fa emergere non solo il sovrannaturale, ma anche le inquietudini più ataviche degli uomini.

Il “gotico andino” dell’autrice, però, accetta anche contaminazioni contemporanee come il fenomeno delle creepypasta, brevi frammenti di storie orrifiche pubblicate su internet che col tempo hanno creato una vera e propria mitologia contemporanea dell’horror, di cui fa parte la famosa leggenda di Slenderman.  Le creepypasta sono alla base del culto del Dio Bianco e dell’età del bianco, il culto della paura creato da Annelise, amica di Fernanda.

Questo romanzo, però, non vuole creare soltanto un racconto dell’orrore che fonde la tradizione andina con l’oralità “internettiana”. Si presenta, infatti, anche come un’indagine sociologica della paura, scritta con una prosa che ben sa scandagliare l’animo umano attraverso un linguaggio espressivo e immaginifico raffigurando l’angoscia e il turbamento delle protagoniste.

Mónica Ojeda in Mandibula, quindi, illustra le radici della paura attraverso l’analisi del contesto sociale e familiare in cui si svolge la storia. Le protagoniste, infatti, vivono una realtà dove è preclusa loro ogni possibilità di scoperta di sé e del proprio corpo. La loro scuola è un istituto religioso dove ogni tipo di trasgressione viene punita e nascosta all’opinione pubblica per mantenere il proprio status di autorità e ordine. «Il posto ideale per lavorare […] sempre che ogni tanto tu ti faccia sorda, cieca e muta», che «aspirava a educare donne competenti con un’affettività matura coltivando le dottrine della Chiesa».

Il contesto familiare si presenta come altrettanto opprimente. Basti pensare, infatti, alle figure materne, anaffettive e rigide, ma che cercano in ogni modo di mantenere una parvenza di perfezione agli occhi degli altri, fomentando lo stato di repressione e angoscia vissuto dalle figlie. Le madri, che animano questo romanzo, instillano nelle loro figlie la paura e il tormento. Esemplare in questo senso è Elena, la madre di Clara, una genitrice tipicamente kafkiana. Il suo potere oppressivo sulla figlia si manifesta attraverso l’uso di espressioni quali «hai un nido di scarafaggi nel cervello» oppure «vitella», che ne alimentano non solo lo stato ansiogeno, ma anche il complesso di inferiorità.

La paura come esperienza di crescita

Paradossalmente, l’oppressione e l’ossessione per la purezza costituiscono il punto di partenza per intraprendere un cammino di consapevolezza del sé. La purezza è rappresentata dal colore bianco, che in questo romanzo subisce un rovesciamento di significato:

Il bianco […] rappresenta la purezza e la luce, ma anche l’assenza di colore, la morte e l’indefinito. Rappresenta ciò che nel mostrarsi anticipa cose terribili e impossibili da conoscere. È un colore così luminoso e pulito che sembra sempre sul punto di intorbidirsi, di raggiungere la pallidezza perfetta. In altre parole, il bianco è come il silenzio in un film del terrore: quando arriva sai che sta per succedere qualcosa di orribile.

Il bianco diventa colore dell’orrore, poiché significativo della paura di Fernanda e di Clara nell’accogliere i propri desideri e le proprie pulsioni per colpa dei meccanismi di oppressione provenienti dalle loro madri che loro, in quanto figlie, hanno interiorizzato. Attorno al bianco ruota il rito del Dio Bianco, che attraverso la paura permette il «risveglio della sessualità nell’adolescenza e i suoi scomodi cambiamenti sul corpo».

È in questo culto che si può, dunque, trovare la motivazione del rapimento di Fernanda da parte di Clara. Quest’ultima vuole che la sua allieva accolga la paura invece che vincerla. Vuole che assuma il coraggio necessario a uccidere ciò che ha creato la sua famiglia per accettare le proprie fragilità e i suoi desideri carnali.  Desidera che Fernanda riconosca il piacere sessuale e i mutamenti del suo corpo come parte dell’esperienza umana, ma anche la menzogna dietro l’idea di perfezione inculcatole dalla madre, la cui natura è prettamente repressiva.

Una chiave di lettura in questo senso la fornisce Clara a Fernanda affermando che una madre racchiude i suoi figli nella mandibola, ma allo stesso tempo che «una bimba può mordere da dentro, scivolare lungo la gola fino allo stomaco: disnascere». Il termine «disnascere» indica la distruzione di tutti i meccanismi di oppressione creati dalle madri per abbracciare la paura ed entrare in possesso delle proprie pulsioni e della propria natura atavica.

La paura, così come la morte, è «un’emozione futurista del corpo»: è un sentimento utile e necessario per la crescita di una persona, per riappropriarsi della propria indipendenza e per essere più consapevole dei propri limiti e dei cambiamenti del proprio corpo.  Mandibula (acquista) di Mónica Ojeda racconta, dunque, del coraggio di provare paura per conoscere se stessi, ma allo stesso tempo denuncia i difetti di un sistema sociale e familiare che usa l’ordine e l’autorità come strumenti di repressione.

Però la paura – avrebbe voluto dire alla madre prima che morisse – era biologica e parlava una lingua senza uomini. Adesso Clara sapeva che il pensiero non aveva bisogno di parole. Adesso Clara sapeva che certe cose si possono pensare solo senza parole.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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