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«La mela e il serpente» di Amanda Guiducci

8 minuti di lettura

Quando venne pubblicato per la prima volta nel 1974, La mela e il serpente ebbe un grandissimo successo. Innovativo e dirompente, l’ibrido tra saggio e memoir di Armanda Guiducci è però stato dimenticato. A distanza di cinquant’anni, nottetempo ha scelto di ripubblicarlo, riportando nelle librerie una delle voci più originali del femminismo degli anni Settanta.

Tra saggio e memoir

L’opera di Guiducci, che è certamente leggibile come autobiografica, pretende sin da subito di farsi espressione di qualcosa che va oltre l’autobiografia e oltre il semplice riferimento ad un io singolare. Come sottolinea Eloisa Morra nella Prefazione, l’io che parla ne La mela e il serpente è un io che mette in questione la pretesa di neutralità dell’io saggistico.

Attivissima sia nella scrittura che nei suoi lavori che la vedono a fianco di Franco Fortini e del marito Roberto Guiducci, Armanda Guiducci lavora e scrive muovendosi tra antropologia, psicanalisi, poesia e teoria politica. È per questo che, quando decide di scrivere di sé come donna, riesce a decostruire in maniera così brillante la cultura e le mitologie che incastrano la donna nella sua posizione subalterna.

A più riprese esplicitamente critica dei modi di fare femminismo che si alternano e si oppongono negli anni Settanta, Guiducci costruisce una lettura – e una scrittura – della questione femminile del tutto particolare, che non si lascia ridurre del tutto a nessuno dei femminismi che lei stessa frequenta senza mai adagiarvisi.

Maschio e femmina mi si presentarono così, attraverso quel linguaggio trovato già pronto a irretirmi prima ancora che ne prendessi coscienza o possesso – e che mi riusciva impossibile non parlare, e nel cui stampo incominciavo a comprimere la sabbia di pensieri e sentimenti, due principi costitutivi e discriminatori dell’universo -, trascendenti la mia volontà, immensi e invincibili.

«La mela e il serpente»: io, loro, noi

L’operazione che sviluppa è quella di ripercorrere i momenti cardine della propria vita di donna, facendo costantemente la spola tra il proprio corpo e le tradizioni, occidentali e non.

La prima immagine è allora quella del sangue, del menarca, che cessa di essere una questione individuale nel momento in cui Guiducci sposta lo sguardo dalla propria esperienza traumatica alle miriadi di culture e tradizioni che alla prima mestruazione attribuiscono poteri sovrannaturali – a volte benefici, più spesso malefici.

È guardando a queste culture e alla propria formazione che l’autrice ricostruisce genealogicamente le condizioni di possibilità dell’oppressione della donna. Da una parte, infatti, mostra come la religione e il pensiero patriarcale abbiano giustificato la subalternità imposta alla donna e, dall’altra, mostra come, in un circolo vizioso, la sua oppressione già concreta abbia reso possibile questo genere di cultura.

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Nel ripercorrere la propria storia, personalissima e singolare, Guiducci è in grado di risalire anche la storia, più ampia, delle culture che trascendono il singolo, conducendo una riflessione che si muove incessantemente tra antropologia e autoanalisi. Affronta, con questo metodo, una serie di questioni tabù, dal menarca alla verginità, dalla masturbazione alla gravidanza, dall’invidia nei confronti del fratello maschio ai sogni erotici, dal difficile rapporto con le altre donne alle molestie sessuali.

Una mattina, in campagna, sola in mezzo al silenzio degli alberi, provai un’improvvisa pressione di linfe, clorofille. Mi sentii gonfia, verde, allacciata al silenzioso brusio delle crescite da una sconosciuta forza ombelicale. Turgida, albero. Come Dafne mentre si trasformava in alloro.

Non racconta solo di sé, ma riporta anche le esperienze delle donne a lei vicine, come quelle delle amiche che sembrano partorire, più o meno felicemente, una dopo l’altra. Ricorda la madre, la nonna-strega che la terrorizzava con la sua vecchiaia così poco femminile, così poco decorosa. Invoca le scrittrici che le hanno regalato, formandola, qualche rappresentazione dell’interiorità femminile che le era sembrata indicibile e proibita. Racconta le ragazze della tribù di Tsetsaut, nella Columbia Britannica, alle quali, dopo il primo menarca, si impediva di guardare il cielo, perché il loro sguardo avrebbe fatto scendere la pioggia. Un filo scarlatto, scrive Guiducci rivolgendosi alla lettrice nelle ultime pagine, collega queste esistenze così lontane tra loro.

O Cleopatra, o Maria

Se l’uomo ha, secondo la psicanalisi, il terrore della castrazione, la donna vive nella consapevolezza che questa castrazione è già avvenuta. È avvenuta, però, non a livello biologico, ma a livello culturale, nella rappresentazione polarizzata della donna, a cui viene concesso di scegliere un’identità tra quella Cleopatra, passionale e sanguinaria, e quella di Maria, pudica e tutta dedicata alla sua miracolosa maternità. Anche la letteratura, allora, fa problema, raccontando alla bambina, alla ragazza, alla donna, che per loro le opzioni sono limitate, limitanti, asfissianti.

Fu una sorta di castrazione angelica, una di quelle manipolazioni del corpo e dei sensi ben più potenti o profonde del volerci bucare i lobi degli orecchi per farci passare gli orecchini o pettinarci la testa a canne d’organo e infilarci dentro dei nastri. La Madonna, la Dama, Isotta, Beatrice, Laura, Sofronia, Penelope, le pastorelle dell’Arcadia, Ofelia, Giulietta, Margherita, Lucia, erano tutte creature che avevano in comune una totale assenza di pulsioni sessuali.

Lucida, critica e mai disattenta, ne La mela e il serpente (acquista) la scrittura di Armanda Guiducci è animata da una doppia passione: dalla sua voce traspirano la rabbia e la gioia di essere nata donna in una cultura che la opprime strutturalmente. Nonostante la giusta pretesa di essere qui letta come saggista, l’autrice non rinuncia ad una prosa crudamente poetica, che vive dell’esperienza viva di una donna come le altre. Le sue riflessioni, che si muovono ben oltre la questione femminile per contemplare anche le problematicità delle nuove tecnologie, del capitalismo e delle guerre moderne, sono intrecciate indissolubilmente alla sua esistenza, al suo corpo.

Follia e femminilità sono terribilmente vicine: entrambe nascono da un avvicinamento pericoloso nel processo dell’esclusione sociale.

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Maia Tomasella

Classe 1999, laureata in Scienze Filosofiche, provo a conciliare il mio amore per la filosofia con quello per la letteratura. Sottolineo i libri con la penna e parlo troppo, di solito con i gatti.

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