Anatomia di una dolce ossessione

«Sylvia» di Leonard Michaels

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«Sylvia» di Leonard Michaels

«Gli elementi di base della scrittura – dizione, grammatica, tono, immagini, schemi sonori delle tue frasi – rivelano molto di te, al punto che è possibile che tu stia scrivendo di te stesso senza rendertene conto», riflette Leonard Michaels: «ogni volta che scrivi, scrivi virtualmente il tuo nome ancor prima di firmare».

Le parole dell’autore statunitense, asciutte ed essenziali, trasudano identità. Tra le pagine di Sylvia, dietro il velo della pulizia formale, emerge la sua voce disperata che osserva e traccia l’anatomia di una dolce ossessione. Concepito come un memoir autobiografico in forma di racconto e pubblicato per la prima volta nel 1992, il romanzo breve di Michaels è tornato fra gli scaffali delle librerie italiane in una nuova edizione Adelphi.

Un dolce inferno coniugale

Anni Sessanta. Leonard è un aspirante scrittore. Dopo due anni infruttuosi a Berkeley, si mette alla guida di una Cadillac decappottabile per tornare a casa, con «nessuna idea su cosa fare, a parte il desiderio di scrivere». Il rientro in città è deludente: le quattro stanze dell’appartamento dei genitori nel Lower East Side di Manhattan sono fin troppo anguste per accogliere un altro adulto. Le giornate, lunghe e tutte uguali, si consumano tra libri, sigarette e tazzine di caffè fino a quel pomeriggio a casa di Naomi Kane.

Nell’appartamento dell’amica, appare Sylvia Bloch, intenta a spazzolarsi «i lunghi capelli neri da orientale». E, nell’attimo in cui Leonard le rivolge lo sguardo, capisce che il dubbio su cosa fare della sua vita è «risolto per i quattro anni successivi». La loro storia comincia «senza un inizio», in un pomeriggio trascorso «a fare l’amore finché divenne crepuscolo e il crepuscolo divenne notte fonda». Presto l’intuizione di Leonard si rivela veritiera: il loro legame diventa un impegno a tempo pieno e Sylvia prende il sopravvento su ogni cosa.

C’erano attimi in cui ci capitava di guardarci, mentre eravamo seduti a qualche metro di distanza in una metropolitana affollata, o a una festa, o nel flusso di una conversazione drogata con altre quattro persone nel nostro soggiorno, quando l’alba grigia iniziava a illuminare le finestre, e ci sorridevamo con gli occhi, come se fossimo imbarazzati dalla nostra stessa fortuna di stare insieme.

«Una stanzetta di rabbia»

Fuori dalle finestre del loro appartamento in MacDougal Street imperversa «un bizzarro delirio» jazz e beatnik. Sono gli anni del «contagio visionario», delle «affamate nude isteriche menti distrutte dalla pazzia» protagoniste dell’Urlo di Allen Ginsberg e delle canzoni di Elvis Presley. Il Greenwich Village è «la terra di nessuno», animata dagli eccessi sregolati della Beat Generation e dei figli dei fiori, in cui «la parola ama risuona come un proclama con la forza di uccidi».

Intanto, tra le pareti sudicie, Leonard e Sylvia precipitano in un graduale isolamento, troppo intenti a consumare il loro feroce e malato sentimento. Ben presto il loro nido infestato di scarafaggi si trasforma in «una stanzetta di rabbia» claustrofobica. Tra urla e liti furibonde, Leonard conosce una Sylvia che non sta affatto «dalla parte della vita». Al contrario, danza sull’orlo dell’abisso: indossa gli stessi vestiti per giorni finendo per dormirci, cammina dentro a scarpe rotte rifiutandosi di farle aggiustare, frantuma piatti, minaccia il suicidio in preda a improvvisi scoppi di rabbia. E, dopo quattro anni, il punto di non ritorno. Sylvia scrive un finale tragico per entrambi ingerendo quarantasette barbiturici.

Sylvia scoprì in me un’invalidante malattia emotiva. Insieme, la alimentavamo. Io non ero una persona abbastanza generosa, pensavo, mentre lei era un prezioso meccanismo in cui molle e rotelle delicatissime erano state brutalmente squassate dal dolore.

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«La vita svela i suoi tratti solo nel ricordo»

Tassello dopo tassello, Michaels ricuce passato e presente per ricostruire l’antefatto della catastrofe. Sigillato in una folie à deux, assiste impotente alla disintegrazione psichica di Sylvia, macerandosi nel senso di colpa in un monologo disperato a metà fra romanzo e diario. Sotto strati di risentimento, miopia e rimprovero, il romanzo si fa espressione di un ultimo atto d’amore e testimonianza di una felicità disperata e perduta.

Ispirato alla storia della prima moglie di Michaels, morta suicida prima di compiere i venticinque anni, Sylvia (acquista) si consuma veloce nel reciproco divorarsi di due anime sofferenti che non possono vivere né l’una con l’altra né l’una senza l’altra. E forse, come sembrano suggerire i versi di Adam Zagajevski che aprono il romanzo, tutta quella vita nascosta tra le pagine svela i suoi tratti solo nel ricordo, e quindi, in fondo, nell’inesistenza:

Quanto è inafferrabile la vita,
solo nel ricordo svela i suoi tratti,
nell’inesistenza.

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Costanza Valdina

23 anni, nata a Perugia, laureata in letteratura americana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. La descrivono come un’instancabile lettrice, un’incurabile cinefila e una viaggiatrice curiosa. Negli anni si è innamorata della scrittura e del giornalismo, ispirata dall’ideale che “pensieri e parole possono cambiare il mondo.”

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