In biologia marina, il whalefall, l’affondamento delle balene, è un processo che fonde vita e morte. La fine di un cetaceo segna l’inizio di un nuovo ciclo. La carcassa scivola lentamente verso le profondità oceaniche, trascinata dal suo stesso peso. Non appena tocca il fondale s’innesca una metamorfosi. Sciami di macro e micro organismi necrofagi e carnivori convergono per smembrare la carcassa e trasformala nel cuore di un nuovo ecosistema. La biodiversità esplode, le comunità si insediano e resistono per decenni, lasciando un’impronta negli equilibri del mondo sommerso.
Tra le pagine di Whalefall, il romanzo di Daniel Kraus edito da Ne/oN Libri e tradotto da Andrea Cassini, vita e morte si rincorrono mentre un giovane sub lotta per la sopravvivenza e cerca di sconfiggere i propri demoni all’interno di un capodoglio da sessanta tonnellate. È ormai da qualche mese tra gli scaffali delle librerie italiane la nuova avventura letteraria dall’autore de La forma dell’acqua, il libro che ha ispirato l’omonimo film di Guillermo del Toro premiato agli Oscar.
Rimpianto
Monterey, California. Jay Gardiner ha diciassette anni e porta sulle spalle il dolore per la morte del padre Mitt, «un vecchio sub con occhi scintillanti» venerato da tutti come «leggenda locale ed enciclopedia ambulante di cultura marittima». Colpito da un cancro terminale, Mitt sceglie di anticipare la fine: si immerge con le tasche piene di piombi, lasciandosi inghiottire dall’oceano piuttosto che dalla malattia. Jay, che si era allontanato dal padre negli ultimi tempi, è consumato dal rimpianto. Spinto dalla necessità di espiazione, si lancia alla ricerca dei resti di Mitt sul fondale di Monastery Beach.
Jay spera di trovare il cranio di papà, ma si accontenterebbe di qualsiasi cosa. Un femore. Un paio di costole. Una manciata di falangi, tipo dadi da gioco. Seppellendo i resti di Mitt in maniera decorosa e ufficiale, non quella tomba fasulla al cimitero di Moss Landing, Jay spera di trovare quella miracolosa “chiusura” che stanno cercando sua mamma e le sorelle, che a quel punto forse lo riaccoglierebbero in famiglia. La scorsa notte Jay ha sognato le ossa di suo padre, burrose dentro un nido di laminarie porpora, tempestate di lumache di mare rosse simili a luci natalizie. Erano come velluto tra le sue mani, quella carezza gentile che Mitt non gli ha mai dato, e che perciò lui non ha mai restituito. Se l’è portate sulla guancia. Le ha baciate. Si è svegliato con il sapore di midollo in bocca. Stranamente, sapeva di lacrime.
Espiazione
Quella che doveva essere un’immersione di redenzione per «ripulire la sua reputazione infangata» si trasforma in una lotta per la sopravvivenza all’ultima boccata di ossigeno. Tra i canyon sommersi di Monastery Beach, Jay si ritrova faccia a faccia con «il più grande bulbo oculare della terra». Architeuthis, il calamaro gigante, è «una mezza tonnellata di carne viscosa che galleggia allargandosi come una macchia d’olio». A guardarlo negli occhi, il ragazzo viene percorso dal heiliger schauer, il sacro brivido di quando si finisce nello sguardo di un predatore. Non è il calamaro la reale minaccia, ma il risucchio che lo trascina assieme a lui nella gola spalancata di un capodoglio.
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Jay precipita lungo uno scivolo d’acqua nel viscido inferno dell’esofago. Da quel momento, la missione cambia: non si tratta più di espiare, ma di sopravvivere alle viscere del gigante marino. Il tempo si trasforma in un nemico implacabile. I capitoli di Whalefall (acquista) scandiscono il conto alla rovescia dell’ossigeno rimasto nella sua bombola. Ogni piccolo traguardo è controbilanciato da un nuovo disastro. Jay schiava i pericoli, ma non riesce ad evitare di perdere sangue, rompersi i timpani, smarrire le pinne, ustionarsi le mani con l’acido e rischiare persino l’avvelenamento da metano.
Redenzione
Nel frastuono vibrante delle viscere del capodoglio, Jay si convince di udire il familiare biascicare roco del padre. Sull’orlo del soffocamento, rovista nelle profondità della propria memoria. Nello sfiorare la morte, ogni frammento di vita passata si accende come un bagliore improvviso. Forse, pensa Jay, quella vecchia balena non è poi così diversa da suo padre: anche lei porta con sé il peso della fine, un’intima consapevolezza della propria mortalità. E i blocchi di cemento che giacciono nel suo stomaco non sono lì per caso. Proprio come Lee Chong di Vicolo Cannery, il romanzo di John Steinbeck tanto amato da Mitt, Jay comprende quanto il diritto di un uomo a togliersi la vita sia essenzialmente inviolabile.
Jay indugia sulla morte di papà. Su Vicolo Cannery, una storia allegra che, in maniera piuttosto inspiegabile, presenta quattro suicidi in meno di duecento pagine. Sul fatto che alcuni capodogli si riempiano la pancia di sassi – anche pezzi di cemento, probabilmente – per appesantirsi e annegare. Perché le loro vite, senza predatori che li braccano e senza sconfinate distese oceaniche da esplorare, non sono più degne di essere vissute.
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