Un labirinto di passi senza fine

«A New York con Paul Auster» di Giorgio Biferali

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«A New York con Paul Auster» di Giorgio Biferali

«New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine», riflette Paul Auster passeggiando nella Città di Vetro. Non si è mai stufato di osservarla ed esplorarla isolato dopo isolato, perché solo «camminare ti porta le parole e te ne fa sentire il ritmo mentre le scrivi nella tua mente». Sarà pur vero che New York la si conosce «ancora prima di arrivarci», come suggerisce Giorgio Biferali, ma non si finisce mai di volerla riscoprire. Un po’ come succede con la letteratura, con il cinema, con la fotografia, «questa brulicante isola di gneiss e cemento e vetro» dipende sempre da chi la guarda, da chi la ascolta, da chi la immagina, da chi la vive, anche solo di passaggio. «Come avrebbe detto Whitman, rivolgendosi alla città, “mi dai sempre facce”».

Biferali l’ha voluta percorrere attraverso la voce, lo sguardo, i ricordi di uno tra gli autori che hanno più amato raccontarla. L’ha tratteggiata passo dopo passo tra le pagine di A New York con Paul Auster, la sua nuova guida narrativa edita da Giulio Perrone per la collana Passaggi di Dogana.

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Sulle orme di Paul Auster

Quasi come un protagonista di una tipica storia austeriana, poco prima di un viaggio improvvisato a New York, Biferali conosce «per caso» un editore che gli chiede di scrivere un libro sulla città «attraverso i romanzi di Auster». Al suo arrivo, l’autore americano è morto da appena dieci giorni. Il ricongiungimento con la metropoli, conosciuta anni prima anche tra le pagine della Trilogia, gli restituisce la sensazione di quando «ne aveva letto la prima volta, anche se in fondo c’è qualcosa di diverso». Per trovare una risposta, non rimane che ripercorrere le orme dello scrittore.

Biferali parte con un itinerario già prefissato. Comincia dalla Columbia University, dove Auster «per quattro anni non ha fatto che pensare ai libri, alla guerra del Vietnam e a diventare uno scrittore, o almeno a provarci in tutti i modi possibili». Prosegue con Central Park, «un riparo grande e pieno di verde» in cui si rifugia Marco Fogg, protagonista di Moon palace, per «riscoprire l’imprevedibilità che credeva di aver perso». C’è poi una tappa alla Grand Central Station in cui Quinn della Trilogia cerca tra i passeggeri quello con la faccia di Stillman e a Times Square dove «ti senti al centro del mondo, con il neon che ti si rovescia addosso da ogni angolo del cielo». Percorsa tutta la Broadway fino a sud, si dirige verso il solo ponte della città in grado di offrire «la sensazione di poter volare». Ed ecco Brooklyn, centro inesauribile di storie, unico angolo di mondo in grado di far sentire Auster a casa.

Dopo tutti quegli anni nei sobborghi trovo che la città mi sia consona, e mi sono già affezionato al mio quartiere, con il suo mutevole calderone di bianchi e mori e neri, il suo coro a più strati di accenti esotici, i suoi bambini e i suoi alberi, le sue famiglie piccolo-borghesi che faticano, le coppie lesbiche, i negozi di alimentari coreani, il santone indiano barbuto in tunica bianca che si inchina ogni volta che ci incontriamo per la strada, i nani e gli storpi, i vecchi pensionati che arrancano a passettini sul marciapiede, le campane delle chiese e i diecimila cani, la popolazione sotterranea di rovistarifiuti senzacasa solitari che spingono i carrelli del supermercato lungo i viali e cercano bottiglie nella spazzatura.

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Una storia senza epilogo

Biferali immaginava di arrivare a Brooklyn «per cercarlo, parlarci, raccontargli di questo libro, e soprattutto ascoltare la sua voce». E invece no: come Baumgartner, «ha vissuto tutto il viaggio con la sindrome della persona fantasma, cioè vivendo la città come se Paul fosse ancora vivo». Ma, proprio come in un epilogo austeriano che si rispetti, il protagonista realizza che più che raggiungere la meta prefissata, è importante imparare a trovare la bellezza anche in un inseguimento impossibile.

E così, per conoscere l’autore, comincia a raccoglierne i riflessi sparsi impressi nella città. Tra le pagine A New York con Paul Auster (acquista), Biferali fa rivivere lo scrittore nei frammenti diffusi del suo passaggio tra panchine, negozi, marciapiedi, abitudini, conversazioni origliate e registrate su carta perché per certe storie «è possibile continuare a scriversi senza il loro autore».

Mi piaceva come scriveva, mi piaceva che usasse un linguaggio semplice, quotidiano, ma senza essere mai banale, anzi, mostrandomi il mondo come fosse un teatro, con tutto quello che si vede, ogni giorno, sì, ma anche con tutto quello che nasconde. Mi piaceva il ritmo, la musica del testo, come risuonavano dentro di me le parole, diventando voci, movimenti, umori, gesti, strade, parchi, metropoli. Mi piaceva che le sue storie non finivano, c’era un punto alla fine, ok, ma non finivano veramente, era come se le vite di quei personaggi continuassero fuori dal libro, come se quelli poi non fossero personaggi, ma esistessero davvero. D’altronde, lo dice anche Paul, “le storie senza epilogo non possono che durare per sempre”.

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Costanza Valdina

23 anni, nata a Perugia, laureata in letteratura americana all’Università Ca’ Foscari di Venezia. La descrivono come un’instancabile lettrice, un’incurabile cinefila e una viaggiatrice curiosa. Negli anni si è innamorata della scrittura e del giornalismo, ispirata dall’ideale che “pensieri e parole possono cambiare il mondo.”

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