Dare voce all’anoressia

«Brave ragazze» di Hadley Freeman

8 minuti di lettura
«Brave ragazze» di Hadley Freeman

«La gente crede che si riduca tutto al desiderio di magrezza. Che la soluzione sia ricominciare a nutrire la paziente. Sbagliato». In sole due frasi, Hadley Freeman spiega in Brave ragazze cos’è l’anoressia: una morsa, che va ben oltre il piatto. Una voragine che ti inghiotte. Il libro, pubblicato da 66thand2nd, voleva essere un’autobiografia dell’autrice ma, di fatto, è uno specchio in cui chiunque abbia sofferto di disturbi alimentari non fatica a riconoscersi.

Un memoir collettivo

Io bramavo la perfezione ed ero intrappolata nell’ambizione, paralizzata dalla vergogna per le mie mancanze. Credevo che non mangiare mi avrebbe aiutata a raggiungere il mio scopo o  almeno mi avrebbe fatto espiare tutte le mie lampanti imperfezioni.

Tuttavia, nonostante la diet culture sia ancora pervasiva e il modello di magrezza sia presentato come quello vincente, Freeman ammette anche come non sia tanto una questione di trigger a scatenare i disturbi alimentari, nonostante, certo, possano influenzarli: «Qualunque cosa avrebbe potuto farci saltare, perché l’anoressia era una bomba dentro di noi in attesa dell’attimo giusto, della singola vampa, dell’innesco». Nel suo caso, era stato un commento di un’altra ragazzina dalla statura non indifferente che, in palestra, l’aveva definita “normale”. Da lì, la Hadley Freeman quattordicenne era precipitata nella tana del coniglio.

Leggi anche:
Laura Palmer ci interessava poi tanto da viva?

Anoressia, tra nomi e aggettivi

Quante volte abbiamo scosso la testa davanti ad articoli di giornale o trasmissioni in cui le persone con un disturbo alimentare venivano definite “anoressiche” o “bulimiche”? Una diagnosi che diventa un aggettivo, spesso totalizzante, un’etichetta appiccicata sulla schiena. E allora pensavamo che no, si dice “persona con anoressia/bulimia”.

Freeman non la pensa così e abbonda di espressioni come “ragazze anoressiche” ma, a differenza di tanti altri che ricorrono a queste formule più che altro per semplificazione, lo motiva: «Quando ero stretta nella morsa della malattia ero a tutti gli effetti solo un’anoressica: non esisteva nient’altro nella mia vita, l’anoressia controllava ogni secondo di ogni giornata, ogni parola pronunciata dalla mia bocca, ogni pensiero fugace nella testa. Non ero più me stessa».

Gli squilibri ormonali incidono sul comportamento, la fame rende perennemente nervosi, pronti a scattare; la poca energia in corpo, però, rende anche incredibilmente deboli. Il mondo diventa un piatto e il resto è un corollario che ci gira attorno. Sport e attività fisica diventano un imperativo, tanto che non si sa nemmeno se venga fatta per passione o se sia solo un modo per bruciare calorie. Non si conoscono più i propri piatti preferiti: sono stati trasformati in numeri e il vincente è quello più basso. L’universo si rimpicciolisce un po’ alla volta, come le cosce e il girovita; anche se non ci si rende conto, tutto diventa più piccolo e, alla fine, non c’è spazio per nulla che non sia il disturbo alimentare. Il resto sta fuori e, in questo modo, sta lontano. E tu, sei al sicuro.

Leggi anche:
Vendicare Eva

«Brave ragazze», una voce per tutte

Se mangi non succede niente. Devi mangiare. Perché non lo fai? Lo sai che ti fai del male? Un ritornello che chi soffre di anoressia si è sentito ripetere più e più volte. Domande a cui spesso non si sa rispondere perché provateci voi, a spiegare il mondo che c’è dietro, le paure irrazionali, i sensi di colpa che ti divorano da dentro, la dispercezione corporea che ti convince di essere un elefante.

Hadley Freeman, però, ci riesce e dando la sua spiegazione, forse, trova in Brave ragazze (acquista) una voce per tutte: «Quella forza non era altro che paura di me stessa: paura dell’ansia che avrei provato se avessi mangiato quel biscotto,  di quanto mi sarei odiata dopo, Dio, soltanto il pensiero di quei minuti subito dopo aver mangiato… La ripugnanza per ciò che avrei fatto, il terrore di non poter più rimediare, le ore di viavai forsennato, dopo, avvertendo il grasso che mi  zampillava dal corpo, le cosce che sfregavano tra loro, la pancia sporgente strizzata contro la cintura. Era insopportabile, quell’ipotetico futuro».

Cercare un lieto fine è tempo sprecato: la vita, la malattia, non ha il “vissero tutti felici e contenti”. Freeman è guarita, ma l’anoressia non è stata cancellata con la gomma dalla sua realtà: è rimasta a guardarla da una mensola o da un angolo della stanza, come un animale pronto ad attaccarla di nuovo. A volte è successo, a volte no perché ha avuto la meglio sul proprio disturbo alimentare. Ogni volta che leggiamo o ascoltiamo una storia come quella di Freeman, ci chiediamo cosa ci sia scritto nell’ultima pagina, cerchiamo la rassicurazione di una guarigione, di un sospiro di sollievo dopo tanto penare. «Ma di rado c’è un finale netto» avvisa l’autrice che, allora, sollecita una domanda: cosa significa guarire? A ciascuno la propria risposta.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Maria Ducoli

22 anni, studio linguistica a Venezia, leggo, scrivo e cerco di sopravvivere alla giornata.

Lascia un commento

Your email address will not be published.