Corpi maledetti in festa

«Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre» di Irene Solà

9 minuti di lettura
«Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre» di Irene Solà

Nelle pagine iniziali del terzo romanzo di Irene Solà, l’autrice catalana che nel 2020 ha vinto il Premio letterario dell’Unione Europea con Io canto e la montagna balla (Blackie Edizioni), si trova una frase che squaderna in poche parole la totalità del contenuto del libro:

Soltanto un cerchio di donne lerce e ripugnanti.

È (quasi) tutto qui, nel lessico sensuale e immediato che caratterizza la scrittura di Solà: un cerchio di donne si tiene per mano intorno a un letto, e aspetta, nella penombra di una camera pregna dell’odore di un corpo morente, che qualcosa accada.

Romanzo corale e sapientemente folkloristico, all’interno del quale si aggira silenziosamente la presenza demonica del diavolo, Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre (Mondadori) è un racconto ciclico, che si riavvolge su sé stesso uno spasimo dopo l’altro. Le sue spire sono cavalcate da donne maledette, disgraziatamente incastrate tra la vita e la morte. La loro capostipite, Joana, ha stretto un patto col diavolo, che ha condannato ciascuna di loro a una mancanza diversa: a Margarida manca un pezzo di cuore, a Bernadeta le ciglia, a Blanca la lingua, a qualcuno la capacità di provare dolore, a un’altra l’amore per la madre. Joana e le sue discendenti vivono – e non muoiono mai del tutto – fianco a fianco, all’interno del casolare del Mas Clavell, nel cuore dei Pirenei, per un tempo che si dipana indefinitamente per secoli e secoli, senza che questi secoli siano mai veramente individuabili fino in fondo.

A Margarida non piacevano i mattini. Perché di mattino una donna ingenua poteva illudersi che la notte fosse finita. Mentre la notte non finiva mai, attendeva di nascosto e faceva sempre ritorno.

Leggi anche:
Santa Vela, un luogo perso alla fine del mondo

Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre è punteggiato di riferimenti a oggetti, eventi e personaggi che fanno in modo che i lettori possano orientarsi dal punto di vista storico, ma sembra che l’accuratezza storica conti ben poco, perché sin da subito Solà immerge i suoi personaggi all’interno di un tempo cosmico, sacrale, eterno. La temporalità magistralmente proposta dall’autrice eccede il tempo stesso nella maniera in cui si fa mitica, quasi primordiale, e la stirpe maledetta del Mas Clavell diventa protagonista di una saga dai toni ieratici e, allo stesso tempo, mefistofelici.

Se in alcune scene si intravedono degli oggetti decisamente contemporanei all’interno del casolare, non si può invece dire che siano percepiti e descritti con una consapevolezza del tutto contemporanea: lo smartphone diventa un pezzo di specchio che emette luci e suoni, e il microonde è una scatola di metallo che ronza misteriosamente.

All’interno di questo spazio apparentemente slegato dal vincolo del tempo, insieme alle donne si muove l’Avversario, che a volte appare come capro, e più spesso come toro, o uomo, o come una gatta tricolore. Il demonio è allo stesso tempo temuto e desiderato, simbolo insieme di morte e di sesso, di pericolo ed esuberanza vitale. In questo senso, incarna quello che i sociologi del primo Novecento avevano definito “il sacro sinistro”, quello che allo stesso tempo attrae e respinge, seduce e disgusta.

Bernadeta era sempre stata talmente sola che la prima volta che sentì il fetore non ci credette. Il tanfo grave di bestia, di toro, di capra e di altre cose insieme veniva dal bosco e strisciava per terra. Bernadeta si inginocchiò, come chi prega. Annusò. E seguì il lezzo come una scia.

Il Mas Clavell pullula di donne-bestie, fatte di carne e di desideri, incagliate tra nascita e morte, tra ripugnanza e attrazione. La storia inizia da uomini (lupari, ladri, briganti e partigiani), e poi li abbandona lungo la strada, li considera solo a margine, qua e là, presi all’interno di uno sguardo laterale. Gli uomini vanno e vengono, ma loro restano – restano aggrappate alle carni, alle superfici unte della loro dimora, al battito impudico della vita che le governa. Hanno notizie del mondo esterno, hanno visioni, hanno canti da intonare insieme, hanno animali da aprire in due con perizia, hanno demoni che bussano alla loro porta.

Il Mas le nasconde, le trattiene nella propria orbita, e a sua volta è un corpo vivo. Gli animali, le donne, la casa, il diavolo stesso nelle varie forme che gli permettono di manifestarsi: tutto è corpo. Straziato, gaudente, eccessivo, straripante, impudico, sporco, a carponi, a pezzi,  partoriente, morente: il corpo è il vero protagonista della saga di Solà. Nella sua sfacciataggine, la carne si ripropone in tutte le posizioni in cui riesce a contorcersi.

Leggi anche:
Lettere mai arrivate di una storia taciuta

La scrittura di Irene Solà è densa sia nei riferimenti e nelle concettualità che nello stile, e riesce a produrre un testo fitto di fantasmi estremamente credibili e paradossalmente concreti. Soprattutto, però, riesce a mantenersi lirica nonostante la brutalità che la storia attraversa il più punti: la poesia della penna della scrittrice catalana emerge anche dalle viscere degli animali, dagli accoppiamenti scomposti e crudi, dalla violenza esplicita e un po’ ingenua degli uomini e delle bestie che popolano il romanzo.

Come la stessa autrice sottolinea nella nota finale, Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre (acquista) è un romanzo fortemente radicato nel folklore catalano. Sono moltissime le fonti bibliografiche da lei citate a riguardo, e altrettanto approfondita si dimostra la sua ricerca per quanto riguarda la tradizione intorno al patto con il diavolo e alla simbologia che la caratterizza. Tali elementi, che erano già presenti in Io canto e la montagna balla, si fanno, in questo terzo romanzo, ancora più convincenti, e forse più consapevoli, regalando ai lettori un’esperienza sensuale e inebriante.

Come piangeva. Povera Margarida! Come piangeva quando, invece di salire nell’alto dei Cieli ed essere ricevuta dal pastore delle anime, si ritrovò davanti quelle donnacce opprimenti, esperte nel rigirare il coltello nella piaga, e loro la trascinarono lungo le scale, e poco ci mancava che rotolasse giù. La portarono in cucina e la fecero sedere alla tavola imbandita di piatti, calici e casseruole. Dopo aprirono le bocche e bevevano e mangiavano e sbraitavano e sbattevano le mani e brindavano e festeggiavano e si drizzavano in piedi e allungavano braccia e colli.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Maia Tomasella

Classe 1999, laureata in Scienze Filosofiche, provo a conciliare il mio amore per la filosofia con quello per la letteratura. Sottolineo i libri con la penna e parlo troppo, di solito con i gatti.

Lascia un commento

Your email address will not be published.