Santa Vela, un luogo perso alla fine del mondo

«Le madri nere» di Patricia Esteban Erlés

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«Le madri nere» di Patricia Esteban Erlés

Nella letteratura di lingua spagnola – sia in riferimento alla penisola iberica che all’America Latina – si sta assistendo sempre più alla presenza di scrittrici che si rifanno al genere gotico e al perturbante per trattare temi spesso attuali come il femminile, il corpo e la loro repressione. Basti pensare, ad esempio, a Mónica Ojeda oppure a Mariana Enriquez e a Samantha Schweblin, tutte figlie – letterariamente parlando – di Amparo Dávila, colei che di questo gotico al femminile di lingua spagnola è stata un po’ l’apripista.

A questo filone si può inserire sicuramente la spagnola Patricia Esteban Erlés, autrice di racconti brevi che nel 2017 ha vinto il Premio Dos Passos per l’opera prima con il suo debutto al romanzo Le madri nere, pubblicato recentemente da Cencellada Edizioni con la traduzione di Sara Papini.

La trama di «Le madri nere»

Definito dalla giuria del Premio Dos Passos «una fusione insolita di gotico, terrore, poesia scura e racconto infantile riscritto per adulti», Le madri nere è ambientato nel convento di Santa Vela, un posto costruito dalla sua prima proprietaria, Larah Corven, con tanto di labirinti e corridoi senza via d’uscita come rifugio da una maledizione. Ora Santa Vela è un orfanotrofio gestito da Madre Priscia, che accoglie le bambine orfane secondo regole molto ferree, fra cui quella di radere a zero le bambine e privarle del loro nome.

In questo romanzo si muovono le storie di tanti personaggi: oltre a Madre Priscia e Larah Corven, infatti, leggiamo le vicende delle gemelle siamesi Lavinialea, Galia, Tábata e Mida. Quest’ultima, però, sarà colei che avrà il coraggio di sfidare le regole del convento nel momento in cui confesserà di aver incontrato Dio e di aver sentito da questi che in realtà non esiste. L’episodio di Mida, allora, metterà in moto una serie di eventi che non solo metteranno in discussione Santa Vela, ma anche l’identità delle sue inquiline.

L’ispirazione dietro a «Le madri nere»

Come dichiarato in una sua recente intervista per «Bonculture», nella realizzazione di questo romanzo Patricia Esteban Erlés si è ispirata a varie fonti. In primo luogo Shirley Jackson, in particolare L’incubo di Hill House, a cui in esergo dedica il romanzo definendola la «signora di tutte le case stregate». Altre fonti sono: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, in particolare – e questa è l’unica anticipazione che si darà – nel momento in cui le suore del convento butteranno tutti i libri della biblioteca nel lago; la storia della congregazione religiosa irlandese delle Maddalene, che accoglieva ragazze e bambine di ogni età abusando di loro e alienandole dalla realtà esterna, e soprattutto La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca, che attraverso la storia di una famiglia di donne in perenne lutto e il gioco con i colori – in particolare il bianco – e gli spazi racconta la repressione della dittatura franchista.

È proprio quest’ultima fonte che risulta interessante, in quanto Esteban Erlés la rovescia giocando con la simbologia del colore nero, come afferma nell’intervista appena citata:

Desideravo giocare con il simbolismo del colore nero, opposto al bianco, che identifica le suore che compaiono all’inizio del romanzo. Esse mostrano un fervore educativo, desiderose di aiutare e proteggere le orfane, di insegnare loro a leggere e a trovare il loro posto nel mondo. Ho ritenuto opportuno sottolineare che la religione ha spesso custodito la cultura e contribuito a trasmetterla, così come ha protetto e curato, dimostrando compassione per i più deboli. Pensavo alle donne e agli uomini delle missioni, ai monaci che trascrivevano opere antiche nei monasteri per preservarle dall’oblio. In contrapposizione, emergono altri religiosi, altre religiose, che placano nel loro esercizio della fede una sete insaziabile di potere, perpetrano una crudeltà insopportabile e credono di avere il permesso di tormentare e soggiogare gli altri. Il settarismo, il fanatismo totale, la dedizione di un amore cieco a un dio arbitrario caratterizzano le madri nere che giungono a Santa Vela e spazzano via ogni bontà e speranza delle madri bianche, come una piaga.

Il lutto bianco di Bernarda Alba diventa qui una vita nera, una vita virtuosa insegnata alle orfane di Santa Vela attraverso la tortura e la privazione della propria identità. In questo senso Le madri nere ricorda molto Il racconto dell’Ancella di Margaret Atwood, ma anche Strega di Johanna Lykke Holm, romanzi distopico il primo e gotico il secondo in cui le donne protagoniste sono private della propria identità e ridotte allo stato di oggetto attraverso un codice comportamentale che dovrebbe essere virtuoso, ma che in realtà nella sua facciata di virtù si dimostra essere violento e dittatoriale.

Il codice comportamentale e la struttura di Santa Vela

Il rigido codice comportamentale falsamente virtuoso di Santa Vela richiede in primo luogo l’obbligo a essere felici, una regola che vuole instillare nelle giovani orfane il fatto che, se si trovano nella struttura, è grazie alla bontà di Dio, attorno a cui ruota tutto il sistema di oppressione e controllo gestito da Madre Priscia e dalle sorelle di Santa Vela e che porta le orfane a credere in lui «per salvarsi», in quanto è «dev’essere l’unico capace di salvarle».

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Questo lavoro di lavaggio del cervello funziona nel momento in cui le suore del convento privano le bambine della loro identità tagliando loro i capelli, vestendole con un saio grigio e dando loro un nome preso dalle virtù cristiane. Un modo, questo, per controllarle e manipolarle facilmente:

Sopra, nella Sala delle Nuove Arrivate, le tolsero il nome e le tagliarono i capelli biondi che nessuno aveva più pettinato dalla morte di sua madre. Li tagliarono così tanto che pareva un angelo rasato, l’angelo nudo di un quadro. La infilarono in un catino d’acqua gelida e la sfregarono con uno straccio.

Sia questo rigido codice comportamentale che la distruzione dei libri della biblioteca della vedova Corven sono ciò che rendono Santa Vela «una casa malata e malvagia», «un luogo perso nella fine del mondo» senza via d’uscita che fa credere, come nella caverna platonica, di essere l’unica realtà possibile, dove nel mondo di fuori esiste il male e tutto quello che viene dall’esterno priva le orfane dell’amore per Dio, instillato attraverso racconti manipolati al fine di generare la paura per ciò che viene da oltre le mura del convento e in cui chi cerca di fuggire appare come il nemico della purezza di Santa Vela.

Dio principe di Santa Vela

L’aspetto del racconto è fondamentale, in quanto è attraverso la narrazione che Madre Priscia e le sue consorelle riescono a manipolare le orfane. Basti pensare a come, per imporre l’obbligo alla felicità, Madre Priscia si inventa il fatto che «Dio era arrabbiato con Santa Vela e con le sue residenti» e per renderlo felice «bisognava pregare di più […] quindici volte al giorno, tre delle quali nel cuore della notte».

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Ben presto, però, si scoprirà come la storia di Priscia nasca da un abuso subito in gioventù e dalla solitudine di cui la donna ha fatto esperienza. Questa storia ha portato Priscia a costruire il suo castello di illusioni di Santa Vela, fatto originariamente per dare amore, ma che in realtà non ha fatto altro che perpetrare il male che la stessa Priscia ha subito in gioventù, in quanto quello del male è l’unico linguaggio che Priscia ha imparato e sa trasmettere alle altre persone:

Dio quando voleva parlare aveva bisogno che il mondo facesse paura. Tutti i presagi del cielo, ogni piccolo gesto della vita quotidiana trasformata nel brutto sogno di sé stessa si alleavano affinché la sua voce risuonasse ancora nella cupola della cappella, affinché lei sapesse che le aveva abbandonate del tutto, che non sarebbe tornato se non avesse rispettato la sua volontà.

L’unica che capisce che Dio non esiste è Mida. Quest’ultima riesce a rompere l’illusione di Santa Vela in quanto ha compreso come Dio non sia altro che la proiezione di una paura che in realtà «non è reale». La paura non è altro che una proiezione di un trauma di Madre Priscia che di conseguenza vede ormai il mondo come freddo e buio e, invidiosa della felicità altrui, cerca di privarla attraverso meccanismi di paura che passano per l’oppressione e il controllo. Dio, dunque, non è altro che un costrutto di un microcosmo che tanto assomiglia alle dittature che hanno fatto della paura uno strumento potente di controllo che, invece di preservare la vita, la distrugge.

L’incubo di Santa Vela

Le madri nere (acquista) di Patricia Esteban Erlés ben riesce a rielaborare una certa tradizione letteraria – gotica e non – e fatti di cronaca reali per raccontare un mondo sospeso nel tempo, freddo e buio che tanto assomiglia a realtà distopiche conosciute attraverso l’immaginario cinematografico e a certe realtà dittatoriali. Con questo suo romanzo di debutto, Esteban Erlés sa ben raccontare come il Male si origina da traumi subiti nel passato che influenzano la nostra vita e ci fanno credere come non ci siano altre possibilità al di fuori della paura. Inoltre, l’autrice di Saragozza mette in luce come certi sistemi di valori in apparenza virtuosi possano diventare un potente strumento di repressione e controllo che, invece di garantire la vita e la libertà, le distrugge e rende prigionieri privando gli altri della propria identità.

Fecero correre la voce. Avrebbero lavato gli indumenti di tutta la regione per espiare i peccati del mondo, delle bambine maledette. Avrebbero accolto orfane e piccole traviate, avrebbero dato loro una casa nell’amore di Dio in seno al convento di Santa Vela.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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