Nel suo saggio La storia dello zucchero del 1985, l’antropologo americano Sidney W. Mintz racconta come quella dello zucchero sia una prima vera e propria storia di globalizzazione e sfruttamento capitalistico dei lavoratori. Portato nei Caraibi da Cristoforo Colombo pur avendo origine dalla Guinea, la produzione di zucchero in quei territori era in mano a mercati europei, specie a quello inglese. I mercati esteri sfruttavano manodopera di schiavi africani prima e di migranti poi, quest’ultimi politicamente più facili da gestire dopo l’abolizionismo, ma in entrambi i casi si trattava di una prima forma di proletariato che produceva ciò che poi non consumava.
Dietro, dunque, al prodotto più dolce del mondo si nasconde una storia di sfruttamento e di sogni di riscatto infranti vissuta da chi nelle piantagioni di zucchero ci ha lavorato sperando in un futuro migliore. Ciò è quanto è successo a dei migranti provenienti dalla Galizia, la cui storia è rimasta sepolta fino al 2021. A raccontarla per la prima volta è stata la poetessa galiziana Bibiana Candia nel suo romanzo Zucchero, arrivato recentemente in Italia per i tipi di Cencellada Edizioni con traduzione di Giulia Zavagna.
La trama di «Zucchero»
Zucchero si apre a La Coruña, paese nella comunità autonoma della Galizia, nella seconda metà dell’Ottocento. Il paese è in preda a un’epidemia di colera e a un inverno talmente freddo da distruggere le coltivazioni, lasciando, dunque, le persone a confrontarsi con la fame. Ragazzi come Orestes Veiga, Juan il Forca, Amador il Tisico, Manuel di Trasdelrío e José Couto detto l’Azzannato si preparano a partire per Cuba a lavorare lo zucchero per la compagnia di Urbano Feijóo Sotomayor, personaggio realmente esistito.
Leggi anche:
Storie di morti e di padroni
Quello che presto scopriranno questi disperati è che Sotomayor in realtà con le piantagioni di zucchero si è arricchito sfruttando gli altri. Con l’abolizionismo, però, ha bisogno di manodopera, e illudendo chi è in cerca di fortuna altrove ha trovato nuova manodopera da trattare in condizione di semi-schiavitù. Ciò che, dunque, ci racconta Bibiana Candia non è altro che una storia di persone in cerca di un futuro migliore che presto conoscerà l’amara verità dietro ai propri sogni.
Lo zucchero si fa col sangue
Non per niente si è citato Sidney W. Mintz e il fatto che il mercato dello zucchero sia stato un vero e proprio antesignano del capitalismo e del suo sfruttamento. Il romanzo di Bibiana Candia si apre infatti con un proverbio cubano che racchiude molto bene questo aspetto: «col sangue si fa lo zucchero». Come racconta nella nota finale al libro, l’autrice è venuta a conoscenza di questa storia di migrazione e sfruttamento attraverso dei documenti tra cui una lista di 139 galiziani coinvolti «nell’operazione fraudolenta e criminale di Urbano Feijóo de Sotomayor».
Come ha spiegato in una sua intervista, questa storia, rielaborata in chiave narrativa, le ha fatto capire la sua attualità ma allo stesso tempo l’impatto che una storia resa tabù ha su un’intera comunità:
Questo romanzo mi ha fatto riconsiderare cosa vuol dire essere galiziano, capire che la storia che ci precede è assolutamente importante, e anche quando non ne parliamo, quando la trasformiamo in tabù, continua a influenzarci. Perché tutte queste storie che restano nascoste senza essere menzionate continuano a riempirci culturalmente di significato. Quando mi addentrai in questa storia, mi impattò moltissimo, sebbene non fossi cosciente fino a che punto l’avrei rimossa.
Traduzione a cura dell’autore dell’articolo
Sebbene, dunque, questa storia sia rimasta nascosta a lungo, Candia l’ha riesumata mostrando come ancora sia attuale. La storia dei contadini galiziani dell’epoca non è poi tanto diversa da, per esempio, i contadini di Salinas dei romanzi di John Steinbeck o dei migranti sfruttati dal caporalato, in quanto ancora oggi racconta qualcosa del nostro tempo, ovvero un tempo di sfruttamento causato dal capitalismo che fa leva sulle disgrazie altrui per promettere sogni di riscatto, ma in realtà per sfruttarli.
Una storia taciuta dalle pietre vive
I contadini galiziani sono protagonisti di storie che a lungo sono state taciute finché non è arrivato qualcuno a raccontarle. Ciò li accumuna perfettamente ai personaggi di Steinbeck o ai migranti vittime del caporalato, e la stessa Candia, dopotutto, scrive che «le vite uguali sono vite intercambiabili». Attraverso una dedica significativa, cioè «agli emigranti che non hanno potuto raccontare la loro storia e a coloro che sono rimasti qui, senza mai ricevere una lettera», Candia ci introduce fin dall’inizio questo aspetto:
Alle pietre vive non è mai interessato quello che dicono le persone, hanno già un gran daffare a contenere il mare, aggrapparsi al suolo, essere la fermezza che sostiene ogni cosa. Se si distraessero per ascoltare quello che diciamo, il mondo intero crollerebbe.
Dall’inizio alla fine, in Zucchero vi è sempre da parte del narratore onnisciente di prima persona un sentimento di sfiducia e pessimismo verso ciò che racconta, in quanto rimasto volutamente taciuto per mantenere in piedi un sistema di sfruttamento su cui purtroppo ancora oggi si regge la nostra contemporaneità. Di questo clima di sfiducia ne è un esempio un episodio sulla nave Villa de Neda che coinvolge i cuochi:
Il cuoco gli grida parole impossibili, ma loro gridano agli altri; forse incutono timore per via della voce, o forse è perché hanno dei coltelli in mano. Solo i topi sono disposti ad affrontarli, a giocarsi la vita per una patata o delle briciole di galletta in fondo al sacco. Pochi sopravvivono per raccontarlo. Chissà di cosa saranno capaci quando si faranno uomini.
Queste osservazioni del narratore sono fondamentali per farci capire come queste storie sono a prescindere destinate a essere taciute. Il fatto che siano i topi e le pietre ad assorbirle e a esserne testimoni è significativo dell’impotenza dei contadini galiziani e di chi come loro sono costretti ad abbandonare tutto per l’illusione di un futuro migliore che molto probabilmente non solo non gli farà fare più ritorno a casa, ma che li lascerà anche senza testimoni della propria disgrazia. Dopotutto, «qui voi siete merci e le merci se ne stanno al loro posto e non fanno domande», e di conseguenza nessuno è disposto ad ascoltare le parole di chi fin dall’inizio viene considerato un numero.
L’illusione di una terra promessa
L’illusione dei contadini galiziani di un futuro migliore e di raggiungere la terra promessa è, inoltre, alimentata dalle istituzioni, in particolare dalla Chiesa, rappresentata dal cappellano padre Arsenio che «conduce tutti come un cane pastore conduce le pecore più tonte»:
Ci spiega che Dio vuole che andiamo dove dobbiamo andare, che per questo ci ha ficcati qui e che dobbiamo esserne grati, che andare a lavorare lo zucchero ci renderà uomini, ci toglierà la fame, è un regalo che Dio ha messo sulla nostra strada.
Questi discorsi su Dio servono a legittimare non solo le condizioni precarie sulla Villa de Neda, ma anche quanto avverrà una volta approdati a L’Avana. Il capitano della nave, per esempio, è visto come «poco meno di Dio», ma comunque sul suo stesso piano, in quanto «è l’ultimo ad abbandonare la nave e veglia su di noi. Per questo […] nessuno chiede», mentre una volta arrivati a L’Avana il capitano generale investe i contadini di galiziani di una missione importante «per l’onore della vostra madre patria». Anche il seguente discorso del cappellano fa leva sulla fede cristiana per legittimare lo sfruttamento:
Guardate bene questa benedetta terra e lavoratela bene, figlioli, che lavorate per Dio e per lo Spirito Santo, non rendete vano questo viaggio, non fate che Dio vi abbia portato fin qui per nulla, avete una funzione da compiere. Lavorare e combattere il diavolo, da bravi cristiani. Il vostro lavoro è essere bravi cristiani, lavorare bene per il padrone e comportarvi con onore, che Dio vi guarda e si ricorderà di voi, se vi ha già portato fin qui senz’altro non vi lascerà la mano ora.
La retorica usata qui è la stessa dei colonizzatori: è una retorica basata sulla superstizione – generalmente di matrice folklorica, ovvero generata da tradizioni popolari dei popoli soggiogati – e sulla fede fatta con parole percepite come incomprensibili, ma dette da persone che si sanno mostrare autorevoli, come padri pronti a dare conforto ai propri figli, ma che in realtà fanno leva su una certa mancanza di punti di riferimento per giustificare ai loro occhi lo sfruttamento, considerato legittimo perché voluto da un’autorità al di sopra della legge che non vediamo, ma che ci ordina di fare ciò che vuole.
Il tradimento della terra
Per Orestes e tutti gli altri, però, ben presto L’Avana si rivela essere «un paradiso e un luogo spaventoso insieme», un luogo dove una volta arrivati quanto promesso sembra ancora più lontano, un luogo che mostra la vera natura della terra, che odia chi la coltiva e la condanna a vivere la stessa condizione di schiavitù vissuta dai vecchi schiavi africani «tutti ben vestiti e molto più vivaci»:
Nessuno ha cambiato nulla da quando qui ci vivevano gli schiavi, perfino i nugoli di pulci che prima vivevano tra le pieghe della loro pelle ora verranno a pungere noi
Leggi anche:
Nell’«etterno dolore» di New Orleans
In quella che doveva essere la casa di Dio, non solo le canne da zucchero si riempiono del sangue delle mani dei contadini, ma quest’ultimi anelano fortemente alla luce, in quanto senza di essa «il mondo diventa un luogo ostile dove qualsiasi atrocità può accadere», ed è ciò che effettivamente accade: con la minaccia di un colpo di frusta e di essere rinchiusi, i contadini galiziani devono tacere l’atrocità della febbre, della fame, dei topi che infestano i barracones. In poche parole, devono tacere il fatto di essere stati ingannati e trascinati in una sorta di inferno:
[…]Tutto quello che è venuto dopo è stato il passaggio al mondo dei morti, e ci hanno portati qui per passare l’eternità a lavorare e a patire in questo caldo che è come l’inferno, sotto questo sole che dà la luce ma non lascia vedere nulla, io non sono capace di guardare con questo sole.
Parole diverse per raccontare la stessa storia
Se da un lato sembra tutto perduto, dall’altro i protagonisti comprendono che, anche se fra azucre e azúcar c’è differenza, queste due parole diverse raccontano la stessa cosa, dunque è importante imparare un nuovo linguaggio per smascherare la bugia di un Eden negato:
Poiché da questa parte del mare tutto cambia, le parole per chiamare le stesse cose sono altre e bisogna impararle, perché come faremo se non sappiamo dare un nome alle cose? Chi non sa è come chi non vede.
Come afferma il narratore, capire è come guardare: il cappellano padre Arsenio e il capitano generale lo sanno, e con il loro modo altisonante e retorico di parlare stordiscono i contadini con parole incomprensibili per far sì che non capiscano e che continuino a lavorare per loro. D’altronde, accettare queste parole diverse per dire altro è un modo per accettare di essere sottomessi e non ribellarsi a un nuovo ordine, ma allo stesso tempo accettare una certa incapacità a raccontare quanto vissuto:
Qui ognuno è arrivato con la sua storia, non possiamo raccontarle tutte perché non siamo nemmeno tutti capaci di parlare, aínda ben che c’è qualcuno che le racconta. E poi, succede una cosa curiosa: d’un tratto, quando ti trovi in un luogo remoto e diverso, la tua stessa storia ti sembra qualcosa di lontanissimo, qualcosa che è capitato a un altro.
Anche se non si riescono a trovare le parole giuste per raccontare quanto accaduto, provare a scrivere le lettere a chi è rimasto dall’altro lato dell’oceano o farsele scrivere è un modo per cercare di sopravvivere, ma soprattutto per far sopravvivere tramite la parola scritta il dolore e il tradimento subito. Far passare le lettere di mano in mano fa sì che si conservi la memoria, e «farle viaggiare e far sì che sopravvivano è un miracolo», così com’è stato un miracolo che Bibiana Candia ne abbia sentito parlare, le abbia consultate e abbia scritto una storia con parole diverse da quelle che Orestes e gli altri avrebbero usato, ma che comunque permettono la sopravvivenza della loro sofferenza e dello sfruttamento a cui sono stati soggetti.
La memoria che sopravvive nella parola scritta
Con Zucchero (acquista), Bibiana Candia conferma quanto teorizzato da Benedetto Croce: ogni storia è storia contemporanea. Ogni storia di sopraffazione, illusione e sfruttamento è contemporanea. La tragedia dei contadini galiziani arrivati a L’Avana per coltivare lo zucchero è un primo esempio di sfruttamento che sempre si replica di generazione in generazione, che agisce a più livelli condannando gli sfruttati al silenzio e all’oblio. Il compito di dare testimonianza resta sempre alla letteratura, l’unica che può trovare parole adatte a raccontare la disgrazia e a sottrarre dall’oblio storie destinate a ripetersi e che può stimolare l’esercizio della comprensione e della risoluzione di dinamiche di oppressione che contribuiscono tristemente alla conformazione della nostra società.
La terra è nostra, eppure ce ne andiamo.
La terra non è più nostra, anche se ce l’ho in tasca.
Si può seminare in una terra non tua.
Si può lavorare una terra non tua.
Si possono mangiare i frutti di una terra non tua.
L’unica terra davvero mia è quella che ho in tasca.
Di mio c’è solo questa manciata, nulla.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!