Libro di memorie, pubblicato nel 1982, L’invenzione della solitudine di Paul Auster (Einaudi) parla di perdite, di genitorialità e soprattutto di memoria.
Il padre dell’autore muore inaspettatamente e Paul Auster si ritrova in una grande casa che conserva le memorie di un uomo che per tutta la vita ha vissuto emancipato dal mondo. Attraverso la ricomposizione di frammenti sparsi, i ricordi che si fanno strada in lui, Auster ricostruisce un ritratto toccante e onirico di un uomo caparbio e inflessibile; andando persino a ritroso e scavando nel passato della famiglia scoprirà un delitto che ha macchiato l’infanzia del padre e dei suoi fratelli. La morte diviene quindi occasione di vicinanza e di una prossimità necessaria.
Tutti siamo figli (e padri)
Memoir o autobiografia, la prima parte del libro si concentra sulla ricostruzione della personalità distante e superficiale di un padre che è venuto a mancare.
In questo lavoro quasi chirurgico, dove la scrittura è un mezzo attraverso cui l’autore indaga e scandaglia i suoi ricordi, Auster non sembra mai avere l’intento di giustificare un padre sfuggente: compie un lavoro di ricostruzione della memoria per comprendere un uomo che ha sempre osservato con distacco e al tempo stesso con muta curiosità e riverenza. Lo fa non solo attraverso una memoria personale, ma ricostruisce anche la memoria della famiglia, scoprendo una vicenda di cronaca nera che coinvolse i suoi nonni paterni e che probabilmente influenzò la personalità e le indisposizioni di un padre freddo, poco incline alle dimostrazioni d’affetto e distaccato dal mondo.
Questi frammenti, lampi che baluginano con una nettezza e una forza che arrivano dritti al cuore, sono spesso l’occasione per riflettere sul mondo, sulle contraddizioni della vita e sul cambio di prospettiva che richiede la scrittura. Il lavoro che compie Auster è un lavoro di vicinanza e prossimità verso una figura che per tutta la vita ha tenuto a distanza: e tutti noi siamo spinti in fondo a farlo, quando perdiamo le radici e dobbiamo ricostruire attraverso la genitorialità chi eravamo, chi siamo, e chi siamo destinati a diventare.
C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta. […] Invece di compiere la sepoltura di mio padre queste parole l’hanno tenuto in vita, forse adesso più che mai. Non solo lo vedo com’era, ma com’è ancora, come sarà, e tutti i giorni è qui a invadere i miei pensieri penetrandovi furtivo, senza preavviso.
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Una solitudine reale o inventata?
Se nella prima parte de L’invenzione della solitudine Auster incarna la figura del figlio, nella seconda (Il libro della memoria) si concentra sulla figura del padre. Qui la scrittura diventa più esplorativa, i paragrafi apparentemente senza nesso ci guidano sempre attraverso delle visioni, un percorso a mosaico di immagini e associazioni dove «A» riflette su come le coincidenze (o il destino, a seconda dei punti di vista) spesso governino il mondo e le nostre vite.
Nella difficoltà oggettiva del protagonista di essere padre nei confronti del figlio Daniel, Auster traccia un ritratto della solitudine umana commovente e toccante. La solitudine di un figlio, di un padre, di uno scrittore. In definitiva, la solitudine di un uomo.
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L’autore dunque, attraverso un ritratto dei luoghi della solitudine (dove il mezzo è sempre la memoria), ci invita a interrogarci su alcuni temi fondamentali come l’impermanenza di noi esseri umani e delle nostre vite, la ricerca ossessionata che facciamo anche da adulti dei tempi dell’infanzia, lo scorrere del tempo, la fattualità come spiegazione della fatalità. In questo andamento frammentato permane solo una condizione per l’essere umano: la profonda solitudine che lo investe, a prescindere dalla genitorialità, dall’amore e dai legami che esso crea nella sua vita.
Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire e chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine. Un uomo è seduto in una stanza e scrive.
La scrittura e la memoria collettiva
Se la memoria è ciò su cui Auster si interroga spesso e dà risposta forse alla nostra esistenza, la scrittura non può che essere lo strumento attraverso cui l’uomo evita l’oblio. L’attività dello scrittore, sebbene attraversi inesorabilmente lo stato di isolamento e solitudine, diventa quantomai necessaria e imprescindibile.
Ma ne L’invenzione della solitudine (acquista) Auster va oltre a questo e trascende il compito tradizionale della memoria: il ricordo passa attraverso l’osservazione delle cose. Lo scrittore vede e scrive, ma per poter scrivere con oggettività di una memoria che si tramuta spesso in collettiva (e quindi in Storia), deve obliare sé stesso e i suoi limiti. Questo processo di ricordo-oblio permette dunque l’immersione anche nelle storie altrui, ed è il perfetto compimento dell’uomo moderno; anche se Auster ammette che non è mai un percorso oggettivo, ma che ogni cosa può essere dimenticata in qualsiasi momento. L’imperfezione quindi è concessa, e al tempo stesso richiesta, ma dobbiamo essere bravi a lasciarci scivolare l’ego di dosso.
Capì che per Ponge non c’era differenza fra il lavoro di scrivere e quello di vedere. Poiché nessuna parola può venire scritta senza prima essere vista, e prima di trovare la strada fino alla pagina dev’essere stata parte del corpo, una presenza fisica in cui si è vissuti proprio come viviamo il nostro cuore, lo stomaco, il cervello. La memoria, quindi, non tanto come passato che racchiudiamo in noi, ma come prova del nostro vivere nel presente. Se un uomo vuole essere davvero presente fra le cose che lo circondano, non deve pensare a se stesso, ma a quello che vede. Deve dimenticare se stesso per essere lì; e da questo oblio nasce il potere della memoria. È un modo di vivere la propria vita affinché nulla vada mai perduto.
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