Concorre al Premio Strega 2024 Invernale di Dario Voltolini (La Nave di Teseo), su proposta di Sandro Veronesi – già vincitore nel 2006 con Caos calmo e nel 2020 con Il colibrì – con la seguente motivazione:
Ci sono libri così belli da sbalordire. Perché? Perché tutt’a un tratto sembra che quell’autore sia nato per scrivere quel determinato libro, e che tutti gli altri che ha scritto prima non siano stati altro che un passo per arrivare a scriverlo. «Invernale» di Dario Voltolini è uno di quei libri.
«Invernale»: storia di un padre e un figlio
Invernale ci sembra riprendere il felice connubio di prosa e poesia che l’autore aveva sperimentato in Pacific Palisades. Se lì, però, l’intento esplicito era quello di scrivere un romanzo in poesia, qui è la poesia invece ad infiltrarsi nella prosa del romanzo, fornendo alla narrazione un ritmo insieme sospeso e conchiuso («Soprattutto il sabato il mercato è preso d’assalto da una massa di persone»; «Mentre aspettiamo cose che poi saranno viste, la vita procede»; «Ma che cos’è l’attesa, questa condizione che è sempre lì sotto le piastrelle ma che poi emerge tutta insieme a un certo punto?»), un ritmo tuttavia continuamente rotto dalla lente prospettica che, tenue, filtra il racconto: il senso del dolore del protagonista, la sua comprensibilità, il suo portato di verità.
Tre filoni narrativi s’intrecciano in Invernale: il racconto del mestiere del padre del narratore, macellaio del mercato torinese, lavoro di sangue e di corpo, di mani sporche e odore: un dito quasi mozzato è l’evento che mette in moto la sequenza di controlli medici, valori del sangue che non tornano e accertamenti necessari. La sua malattia, un cancro, che s’infiltra d’improvviso nella sua vita, costringendolo a ridimensionarla, a spostarsi, a viaggiare, a Parigi, ma soprattutto a convivere con questo corpo estraneo e lento, a proseguire le cure su prescrizioni che giungono sotto forma di lettere dalla Francia. L’esperienza del narratore, il figlio, la sua, vorremmo dire al costo di suonare un poco artificiosi, trasmutazione del dolore in una dimensione della propria vita.
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Come mostra Voltolini, c’è anzitutto qualcosa di ignoto che accade – una malattia. Ci sono gli effetti che essa produce sul corpo del malato. Poi quelli che si riverberano sulla cerchia più ristretta di chi lo attornia. C’è il lavoro, che cambia, diventa difficile, infine impossibile. Ci sono i viaggi di andata e di ritorno da Villejuif, dove l’avanguardia medica sembra poter contribuire alla cura. C’è infine, come si diceva, la trasmutazione del dolore del padre nel proprio dolore, vale a dire la sua ripresa e risignificazione, che dapprima si manifesta nella forma dell’incomprensibilità, per divenire poi sempre più plastica, visibile, definita. Un innesto definitivo che si prolunga e ritorna nelle pagine del romanzo stesso, dal quale liberarsi diventa, dopotutto, inutile.
La vita guardata dallo sfondo
Nel romanzo questa trasmutazione, appunto, è ottenuta per mezzo di un passaggio dall’esterno all’interno. Voltolini figlio anzitutto vede, abbondano le descrizioni, e noi vediamo con lui («si accende una Nazionale senza filtro. Non sappiamo dove e quando. Credo in un angolo tra il tal corso e la tal via, che lui raggiunge in macchina per il solo motivo che lì no ci ì mai passato»; «Si tasta. Il collo, dietro. Su verso la nuca. Passa le dita dall’attacco del lobo dell’orecchio verso il pomo d’Adamo»; «Scrutando, passo davanti alla soglia della loro camera e mi fermo. Loro due sono seduti sul bordo del letto, sulla sua piazza, quella verso la porta finestra. Una di fianco all’altro, come al cinema. Vedo di scorcio le nuche, perché loro guardano in direzione del pavimento»).
E tuttavia questo senso non è mai pieno o riempito, ma lascia sempre intravedere una dimensione di rimando, un’ombra grigia e, dicevamo prima, sospesa: è il dolore del figlio, fatto anzitutto di progressivo avvicinamento, di opacità contenuta in uno sguardo che cambia, nelle cose e soprattutto nella persona del padre («Un modo più circospetto di camminare, una cautela nel gesto, un’attenzione a cose che altri non vedono»; «Non imparo più nulla, dimentico il poco che so»; «Vago per le sale e i corridoi, non capisco niente, cammino in una sfera, non vedo niente, sono al contrario visto dalle tele, che mi seguono con lo sguardo»).
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Si tratta di uno sguardo in cui non c’è colpa né recriminazione (come potrebbe? Non c’è qui qualcosa capace di sfuggire alla condanna dell’uccisione del padre?), ma dialogo, interrogazione, domanda. La dimensione soggettivistica o sentimentale è ricompresa in questo nesso che lega l’esterno – ciò che si vede e che Voltolini ci mostra – all’interno – il filtro che si aggiunge agli occhi del figlio – dandogli una dimensione che se non avessimo un po’ di timore ad usare questa parola, diremmo volentieri universale. Alcune tra le parti più belle di Invernale (acquista), non a caso, sono dedicate allo sfondo che, silenzioso, osserva questa vita che passa, rompendo il desiderio mimetico rivolto a qualcosa di personale o individuale per lasciare spazio ad una verità più ampia.
La lattescenza del mattino. Ci sono mangrovie che piovono legno nell’acqua, fanno cattedrali che si specchiano in laghi senza trasparenza, sbarre che scendono e irretiscono tutta la scena in una geometria di gabbia. Ci sono aurore boreali che sventagliano nei cieli gelati come scogliere che disperatamente vogliono emanciparsi dall’assalto dell’oceano che sempre si muove, e allora ci divincoliamo anche noi scogliere, sempre ferme a reggere gli urti senza intelligenza della massa d’acqua, in alto nei cieli, festoni festanti, ci divincoliamo come sipari che non ne possono più di tutto questo cazzo di teatro.
La neve invernale rende il nostro dolore meno nostro.
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