Il libro delle case (Feltrinelli, 2021), selezionato prima nella cinquina finalista del Premio Strega e poi in quella del Premio Campiello, rovescia il paradigma tipico del romanzo moderno, inquadrando quello che poteva essere un noioso affastellarsi di eventi gravitanti attorno alla solita vita piccolo borghese dalla prospettiva non del tempo, ma dello spazio. Il romanzo di Andrea Bajani, difatti, non si dipana seguendo il flusso della temporalità, non scioglie un gomitolo di cause e di concause che generano, linearmente, effetti; no, il romanzo si sgrana piuttosto come una serie di fotografie sulla vita degli anonimi protagonisti scattate dalla prospettiva delle case in cui gli eventi accadono. Ogni pagina girata, in altri termini, è una casa che cambia; ogni avvenimento il quadro che ritrae il configurarsi di un’interazione fra persone e non cose, ma case.
La trama de «Il libro delle case» di Andrea Bajani
La vicenda è resa il più possibile anonima da questa particolare modalità domestica di narrazione. Il protagonista, Io, non ha nome: la sua identità si ricostruisce come un puzzle seguendo l’ordine dei luoghi in cui è vissuto, luoghi che, come Io, accolgono altri, gli altri: Parenti, Amici, un Padre avverso, e poi una Moglie malata e infine una non più Moglie nonostante la Figlia. Di qui, la trama viene a coincidere con questo gioco di scacchi, fatto di mosse discrete che spezzano il continuo narrativo, le cui pedine, gli umani, possono stare solo entro la casella.
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La verità profonda che Bajani sembra aver colto, risparmiandoci le 1000 e passa pagine della sferologia di Peter Sloterdijk, è che la nostra esistenza accade sempre in un luogo, e questo luogo può essere assimilato ad una casa, se con casa dobbiamo intendere qualcosa costruito per accogliere qualcos’altro. È un fatto quasi metafisico, un connotato del reale: tutto avviene in un luogo, che a sua volta è contenuto in un altro luogo, e così via a matrioska. Casa, allora, non è solo quella dei Parenti, o la stanza dove si consumano l’adulterio di Io e le sue passioni giovanili, le notti dagli amici, ma anche la fede nuziale, che accoglie l’anulare della sinistra, il carapace della tartaruga, che accoglie l’animale, ma anche l’ostile nascondiglio dove Moro venne rinchiuso, e con esso la macchina che ne accolse il cadavere, la casa dove Moglie vede la morte (l’ospedale) – eventi, questi, che incrociano e si intersecano alla narrazione principale.
Da questa prospettiva, tutto ciò che è narrato da Bajani assume una strana forma di consistenza emotiva, nuova, che non è quella dell’immedesimazione, del riconoscimento e della conseguente catarsi che generano nel lettore le vicissitudini raccontate, ma, al contrario, di un sorvolo sugli eventi dall’alto, che annulla e riduce al minimo la voce dell’io.
Un senso di eternità
Allora l’immagine che abbiamo da Il libro delle case di Bajani (acquista) è quella non del filo che prolunga in orizzontale il suo corso ad ogni pagina, di una durata temporale nella coscienza del lettore che abbraccia quella del romanzo, ma di una serie di frammenti che mano a mano, verticalmente, si compongono, si depositano come tracce mnestiche richiamandosi l’un l’altra sino a profondere nel lettore un vago e piacevole senso di eternità. Eternità non dell’uomo, ma del presente spaziale – il luogo, la casa – nel quale l’uomo vive e agisce. Il procedere di Bajani, nonostante l’impassibilità della vena narrativa non abdica al metodo geometrico, non ci affonda nel mare dell’oggettività. No: esso traduce il realismo, vivificante e veritiero, di chi ha visto che l’esistenza umana è poca cosa, che un giorno, lungi dall’essere dichiarato risolto, questo arcano «si dileguerà e perderassi». Ciò che resterà, alla fine del mondo, sarà il silenzio vuoto delle case abbandonate accompagnato dal frinire dei grilli.
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