Non ti ho chiesto io di partire, avevo detto. L’hai voluto tu, bello mio, se non volevi bagnarti non dovevi imbarcarti.
Nel 2021, ventisette persone — donne, uomini e bambini, perlopiù curdi iracheni, somali ed etiopi — perdono la vita in mare, da sole, al buio, nel Canale della Manica. Nessuno manda i soccorsi. È l’ennesima tragedia che si consuma sotto gli occhi quasi sempre indifferenti dell’Europa e dell’Inghilterra, soprattutto dopo la Brexit. Prendendo spunto da questo evento di cronaca reale, il filosofo e scrittore francese Vincent Delecroix tesse la trama del suo ultimo romanzo, Naufragio, pubblicato nel 2023 da Edizioni Clichy. Un libro che esplora il concetto di umanità, e ancor di più quello della disumanità. Chi è davvero responsabile di quel naufragio, solo una persona? Oppure siamo tutti parte di un sistema che produce indifferenza, che allena alla disumanità?
Finalista a premi prestigiosi come il Goncourt e il Femina, Delecroix disseziona con precisione chirurgica le crepe della coscienza umana, interrogandoci non tanto sul male eccezionale, ma su quello ordinario, silenzioso, burocratico.
La trama di Naufragio
Il romanzo si costruisce intorno a una voce femminile: quella della donna impiegata presso il CROSS, il centro regionale operativo di sorveglianza e salvataggio, che in quella notte di novembre del 2021 non manda i soccorsi. La sua è una voce reale: durante le indagini, alcune sue frasi scioccarono i colleghi e l’opinione pubblica.
Lo stile di Delecroix è sperimentale, minuzioso, quasi disturbante. La lettura provoca disagio, spesso costringe a fermarsi. È un romanzo spezzato in tre parti: la prima è l’interrogatorio con una donna della guardia marina, più anziana di lei di dieci anni, che le somiglia (è forse un suo doppio?); la seconda è una straziante ricostruzione del naufragio e degli ultimi momenti delle ventisette vittime; la terza e ultima parte è un monologo interiore, un j’accuse lanciato al mondo intero, un’analisi a spirale delle responsabilità individuali e collettive.
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Il lavoro della protagonista è proteggere. Eppure, quella notte, ventisette persone sono morte in modo tragicamente crudele ed evitabile. Cosa è andato storto? Il romanzo non offre risposte nette, ma espone con crudezza le incrinature profonde del sistema — e dell’essere umano.
La banalità del male
E allora si potrebbe dire che la loro vera disgrazia, ho ripetuto, sta nel non saper restarsene tranquilli in una stanza.
La donna non ha un’opinione sui migranti, ma non prova neanche empatia; non è xenophoba, come molti altri che abitano nella sua città, ma non fa neanche parte di un ONG o si interessa alla situazione sociopolitica attuale: semplicemente “fa il suo lavoro”. Quante volte questa frase ha giustificato i peggiori crimini della storia? Hannah Arendt l’ha definita “la banalità del male” parlando di Adolf Eichmann: un male che non nasce dal fanatismo o dall’odio, ma dalla docile adesione ad un meccanismo disumano.
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Con gli occhi di una bambina
Suppongo che dire che avevo una bambina che era la pupilla dei miei occhi, che ero una brava madre che si era coraggiosamente occupata di lei quando suo padre aveva lasciato il domicilio coniugale, che mi prendevo cura dei miei anziani genitori — suppongo che non bastasse, perché le guardie dei campi di concentramento amavano le loro famiglie. E dire che facevo semplicemente e coscienziosamente il mio lavoro, anche quello non bastava, dato che anche Eichmann faceva coscienziosamente il suo. E se avessi aggiunto che ascolto Schubert, in realtà non sarebbe stato vero, ma in ogni caso neanche quello avrebbe provato la mia umanità, perché anche i nazisti amavano Schubert.
Non è un mostro e questo è ciò che turba di più. È una donna integrata nella società, con una figlia, dei genitori anziani che vede ogni settimana, un lavoro stabile. Un ritratto comune. Ma dietro la “normalità” si nasconde una terribile inconsapevolezza del limite che separa l’umanità dalla sua negazione.
È il prodotto di una macchina che non funziona secondo coscienza morale, ma secondo coordinate geografiche, norme, zone di competenza. E lei si adatta. Ripete: «Non sono io che gli ho chiesto di partire», come se potesse così alleggerire la responsabilità della sua decisione.
Ma a lei apparentemente interessava sapere chi ero, come se tutto il mistero fosse lì, e anche la soluzione del mistero, e riuscendo a vedere chi sono avrebbe goduto di un panorama mozzafiato sul mistero del male.
Chi è allora questa donna? Il romanzo offre un profilo psicologico incompleto e tuttavia inquietantemente familiare, descrive frammenti che fanno emergere la figura di un «mostro normale partorito per via naturale». Non è l’odio a dominare, bensì l’assenza. L’assenza di empatia, di riflessione, di coscienza.
Tu non sarai salvato
Chi si trova sulla riva? Chi guarda il naufragio, dalla terraferma? Davvero non ci sono che io, io sola?
Alla fine di Naufragio (acquista), Delecroix ribalta la prospettiva: chi sta davvero guardando il naufragio? Chi osserva — da terraferma — senza agire? L’oggetto del giudizio diventa, improvvisamente, il lettore stesso: «Non ci sono naufragi senza spettatori.»
La donna senza nome diventa simbolo. Non è più solo una figura specifica, ma un riflesso collettivo. Rappresenta “la disumanità imbecille”, quella che nasce dal conformismo, dalla routine, dalla cecità volontaria, prodotto in serie di una società sempre più anestetizzata alla sofferenza altrui.
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E allora la domanda finale non è: come ha potuto lei non salvarli? Ma: come possiamo noi continuare a non vedere?
E al cieco che adesso mi sputa addosso mentre finisce il suo abbondante pranzo coi colleghi prima di tornare nel suo ufficetto, io chiedo: Il tipo che dorme in uno scatolone sotto casa tua, oh imbecille, anche quello non lo vedi? Eppure rema allo stesso modo sull’asfalto e affonda allo stesso modo. Eppure non è a decine di chilometri in mezzo al mare e nel pieno della notte, quello lì. Ed è abbastanza facile da geolocalizzare: è alla punta delle tue scarpe. E allora gli mandi i soccorsi o sono ancora io a doverlo fare?
La voce della donna si fa accusatoria, rivolta a chi legge, a chi si scandalizza a posteriori ma non si accorge della miseria che ha davanti agli occhi. Naufragio è un romanzo durissimo, scomodo, che ci inchioda alle nostre responsabilità quotidiane.
Perché, come scrive Delecroix:
Non è la voce di un mostro o di un criminale che si sente. È la voce di tutti.
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