Autenticità: istruzioni per l’uso

«Prepararsi. Il libro delle apparenze» di Sara Marzullo

12 minuti di lettura

Se non lo chiami «tempo per te», perché non sopporti l’ipocrisia, probabilmente dici che «ti stai preparando». Usi lo stesso verbo per dire che stai preparando l’esame, un pasto: ti stai preparando per una prova, per uscire, per essere vista e per presentarti «così come sei».

Il nuovo lavoro di Sara Marzullo è mosso da una domanda, che non intende essere né retorica né tendenziosa. È logico, o accettabile, che l’autenticità richieda una così intensa e meticolosa preparazione? Per chi è, effettivamente, il tempo che passiamo davanti allo specchio? In parte, questa nuova analisi riprende le fila di un discorso l’autrice aveva iniziato in Sad girl. La ragazza come teoria, uscito nel 2024. La costruzione della femminilità, in particolare di quella femminilità specifica a cui si fa sempre più spesso riferimento come girlhood, viene riproposta come questione problematica.

In Prepararsi. Il libro delle apparenze, pubblicato da 66thand2nd, Sara Marzullo torna ad interrogare il lettore, supportata da una nutrita e fondamentale bibliografia, scandagliando la questione delle apparenze con una voce coinvolta, nel migliore dei sensi possibili. (Sarebbe faticoso farsi raccontare la spinosità della questione delle apparenze da qualcuno che non sia disposto ad ammettere la quantità di tempo che passa davanti allo specchio).

La tela di Penelope della rispettabilità

In questo nuovo saggio, Marzullo si impegna in un confronto con il tema delle apparenze e della loro rilevanza. Non è un compito semplice: basti pensare che i primi a riflettere sull’opposizione tra apparenza ed essenza sono, nel VI secolo a.C., i presocratici. Ventisei secoli dopo, non solo la questione continua ad essere rilevante ma, con l’avanzare forsennato e apparentemente inarrestabile della pervasività delle rappresentazioni di ogni genere, si fa sempre più insistente.

Apparire, infatti, non è mai stato così semplice e, al contempo, così complicato. Da una parte, la possibilità di apparire – di mostrarsi – è alla portata di tutti. Dall’altra, il linguaggio sociale delle convenzioni si evolve ad una velocità così repentina che commettere un passo falso non è mai stato così facile. Una tra le svariate soft skill che ogni lavoro ormai prevede, quella di presentarsi al lavoro con il giusto look – non troppo serio ma non eccessivamente casual – è un’abilità che conta forse più delle competenze vere e proprie.

Marzullo chiama questo processo apparentemente senza fine «la tela di Penelope della rispettabilità», una pietra di Sisifo di correttori e palette, di tacchi alti il giusto e di scollature studiate a tavolino.

Osservatori e osservatrici privilegiati del nostro stesso successo sociale, siamo partecipi di una paradossale celebrazione della nostra persona – paradossale perché è a un tempo «per quella che è» e «per quella che potrebbe ancora diventare», il cui valore si esprime proprio nella facoltà di scelta e nel desiderio di un miglioramento personale finalizzato alla propria realizzazione.

Brat o demure?

Ci troviamo quindi costrette ad aderire ad una limitata gamma di personalità preimpostate, come se stessimo scorrendo tra i personaggi disponibili all’inizio di una videogioco. Come già scriveva bene Marzullo in Sad girl, la possibilità scegliere tra personalità transitorie genera presto l’illusione che si possa sempre ricominciare da zero. Come a Taylor Swift, ad ogni donna è data la possibilità di muoversi da un’era all’altra, sperimentando diversi stili piuttosto che costruendosi qualcosa di autentico.

Questa possibilità di identificarsi non è sempre e necessariamente deleteria. Il riconoscimento in qualcosa è fondamentale per lo sviluppo di una psiche equilibrata, e una certa codificazione anche estetica della nostra appartenenza ad un gruppo non è, di per sé, negativa. Ma quando l’adesione ad un paradigma avviene a partire da un algoritmo, si finisce per confondere «il consumo di merci [per] espressione di una identità» che non si sviluppa organicamente ma in maniera subdola, estrinseca.

E cosa succede quando, ad inizio ottobre, la brat summer – che ha provato, spremendosi fino in fondo, a trasformarsi prima in brat fall e poi in brat winter – finisce? Siamo davvero in grado di metabolizzare la velocità a cui l’algoritmo ci consiglierà, ancora e ancora, la prossima skin da indossare?

Marzullo non si illude che si possa parlare di autenticità senza che a qualcuno venga da sorridere. L’impossibilità di parlare di identità autentica in maniera soddisfacente è una lezione che il modernismo ha impartito bene. Ma se una qualche forma di appartenenza e di riconoscimento autentico può ancora avvenire, è importante chiedersi se siamo disposti ad accettare che un algoritmo sia parte dell’equazione.

Vogliamo esprimerci, autenticamente. Salvo che l’autenticità è solo un effetto. […] Per apparire come noi stessi, insomma, dobbiamo metterci d’impegno. Eppure, come abbiamo visto, le cose si fanno difficili quando entriamo in rapporto con gli altri e con le norme sociali; perché esistono regole a cui obbedire antitetiche a quello che consideriamo il nostro carattere, a volte impossibili da comprendere in autonomia, come per Eliza Doolittle; ma anche quando queste regole smettono di essere evidenti e si fanno tacite, anche quando la regola è «essere te stessa», solo alcuni sé vanno bene.

Like a girl: cenni di fenomenologia femminista

Sono riflessioni che portano vicino ad una tradizione, quella della fenomenologia femminista, che dagli anni ’90 si occupa di comprendere l’esperienza incarnata del genere. L’esperienza del corpo vissuto, come studiato, tra l’altro, dalla queer theory che Marzullo sembra conoscere bene, è inseparabile dalla sua determinazione sessuata e di genere. È una tradizione vecchia tanto quanto Il secondo sesso, poiché anche De Beauvoir non era certo digiuna della tradizione fenomenologica.

Vale la pena menzionare, a questo riguardo, la raccolta di saggi della filosofa Iris Marion Young, On female body experience: throwing it like a girl, che forse rimane a riguardo uno dei testi più illuminanti. In uno dei saggi contenuti nella raccolta, Women recovering our clothes, appurata e messa da parte l’implicazione dello sguardo maschile all’interno dell’industria della moda, la filosofa individua tre punti che determinano il piacere che le donne sembrano provare nei confronti dei vestiti. In breve, risultano fondamentali il tatto – senso tipicamente più femminile rispetto al guardare, più maschile – la possibilità di creare un legame con altre donne discutendo e mostrandosi reciprocamente gli indumenti, e la dimensione della fantasia – i vestiti incoraggiano immagini di trasformazione.

Parafrasando Young, il non-reale rappresentato dai vestiti e dai giochi che avvengono con la “preparazione” sono sovversivi nei confronti della razionalità utilitaristica a cui appartengono. Bisogna, ovviamente, restare all’erta: se queste alternative vengono prodotte dallo stesso mondo patriarcale e consumista a cui si cerca un’alternativa, è probabile che non si tratti di fantasia, ma di inganno.

Tenersi pronte

Marzullo non si illude di poter dare una risposta univoca o di poter offrire soluzioni semplici. La questione, d’altronde, è così complessa e annosa che pretendere di risolverla sarebbe ridicolo. Prepararsi offre, però, una serie di spunti davvero interessanti, sia per chi si avvicina per la prima volta a questi temi che per chi vi bazzica da un po’. Come per Sad girl, è apprezzabile la complessità che viene tenuta sempre aperta e la quantità ricchissima di riferimenti che vengono esibiti.

Supportata da autrici come Mona Chollet, Susan Bordo e Ciara Cremin – per citarne solo alcune – Marzullo riesce ad orientarsi tra una notevole quantità di punti, senza mai uscire dal tracciato. La sua presa sui temi trattati, già buona quando si era cimentata su quella che aveva definito sindrome di Laura Palmer, si solidifica ulteriormente.

E i temi sono davvero tanti, molti più di quanto non sia possibile nominare in una recensione. Dalla sublimazione del desiderio nella scopofilia teorizzata da Berger all’alienazione di Chollet, dai contenuti di self-help all’autoesibizione animale, dal lavoro sessuale come produzione di fantasia al ritorno della tradwife: senza perdere il filo, Marzullo fa un ottimo lavoro nel raccontarci come e perché quella delle apparenze sia una questione più che mai vitale.

In definitiva, Prepararsi illumina una tensione che ci riguarda da vicino. Marzullo non propone una via d’uscita, perché probabilmente non esiste. Invita piuttosto a sostare consapevolmente nell’ambivalenza. È in questa zona grigia — né autentica né artificiale, né libera né completamente determinata — che si gioca oggi la possibilità di pensare le apparenze non come una maschera da rimuovere, ma come un linguaggio vivo, da abitare criticamente. E se prepararsi significa imparare a stare in questo spazio complesso, allora forse è proprio lì che l’autenticità, per quanto effimera, continua a trovare una forma possibile.

Maia Tomasella

Classe 1999, laureata in Scienze Filosofiche, provo a conciliare il mio amore per la filosofia con quello per la letteratura. Sottolineo i libri con la penna e parlo troppo, di solito con i gatti.

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