Le recenti alluvioni, i terremoti, le guerre che scuotono il mondo da più parti lasciano sempre un senso di smarrimento e fragilità. Ci ricordano quanto tutto ciò che ci circonda sia precario, quanto la vita possa ridursi, improvvisamente, a un cumulo di macerie ed esistenze sospese. È in questo stato d’animo che incontriamo Nina, uno dei personaggi de La ragazza di luce (TerraRossa Edizioni, 2025), il primo romanzo di Germano Antonucci, giornalista e oggi responsabile dei contenuti digitali di Mediaset.
Nina è una sopravvissuta: un evento traumatico ha distrutto il suo mondo e spento il suo desiderio di vita, lasciandola in bilico tra colpa e desiderio di ritornare al passato.
Non è un caso che il paese immaginario in cui si svolge la vicenda si chiami Lume. La luce, infatti, sembra proprio essere il fil rouge di questo romanzo, simbolo di verità, redenzione e speranza, ma anche di abbaglio e inganno.
Dove finisce la fede, dove comincia il dolore
Dopo la “Catastrofe”, ovvero come gli abitanti chiamano l’evento che ha distrutto ogni cosa, gli abitanti vivono oggi in prefabbricati raccolti nel Quartiere Primavera, mentre la zona delle Case Morte, dove si trovavano le abitazioni distrutte, è recintata e interdetta. È dalla cima del monte, nel punto in cui sorge la Croce, che nella notte del crollo qualcuno ha visto una luce intensa: un bagliore improvviso, interpretato da molti come l’apparizione di una figura femminile, “la ragazza di luce”.
Ogni anno, durante la Commemorazione, il paese si riunisce per ricordare i nomi delle vittime e degli scomparsi, mantenendo viva una ferita che non smette di sanguinare.
«La ragazza di luce.»
«La ragazza di luce?»
«La chiamano così.»
Il pensiero lo attraversa come una scarica elettrica. Un attimo prima del crollo, o un attimo dopo. Se quello che dice Niccolò è vero, significa che mamma non si è sbagliata. C’era qualcuno, lassù, quella notte?
Intorno a quell’apparizione si è costruito un culto, guidato da un sopravvissuto che tutti chiamano Il Santo, e il confine tra fede e superstizione, tra visione e manipolazione, si fa sempre più labile.
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In questo contesto, Nina e Ruben – due preadolescenti che il dolore ha reso più adulti del dovuto –provano a seguire quel filo luminoso, cercando risposte diverse sulle perdite che li hanno segnati. Entrambi a causa della Catastrofe hanno perso una persona cara. Il loro viaggio diventa un percorso nella memoria e nella colpa, ma anche nella tenacia di chi, pur ferito, continua a cercare un senso.
Accanto a loro si muovono figure che compongono un romanzo corale ma saldo nella sua unità: lo zio Ettore; Riccardo, detto Trentapercento, figura ambigua e carismatica; e Lucille, una presenza fragile ma luminosa.
La ricostruzione invisibile
Gli è tornato in mente quello che ha sentito dire una volta da un vecchio, su in piazza: che a Lume non c’è più niente da rifare, i pezzi rotti non si possono aggiustare più; bisogna solo accontentarsi del poco che resta.
Lume ricorda molti paesi italiani colpiti da tragedie reali: luoghi dimenticati, dove la ricostruzione promessa non arriva mai e la vita resta sospesa tra nostalgia e superstizione. Le persone che restano devono adattarsi; in quell’assenza, trovare la forza di ricominciare e rassegnarsi al fatto che alcune risposte non arriveranno mai. Ma per alcuni questa è un’impresa impossibile. Antonucci riesce a raccontare questa dimensione con grande precisione narrativa, intrecciando realismo e tensione soprannaturale.
Nel corso delle pagine, la storia si trasforma quasi in un giallo poiché la luce che avrebbe dovuto salvare, finisce per accecare. La vera catastrofe non è solo quella fisica che ha devastato Lume, ma quella interiore che serpeggia nei suoi abitanti. Al centro del romanzo si insinua una domanda che riguarda tutti: quanto possiamo vivere delle nostre ferite, e dobbiamo davvero raccontarle per poterci assolvere?
[…] dove non c’è un corpo, il dolore resta sospeso per sempre?
Nel romanzo, il lutto non è un processo lineare ma un paesaggio. Antonucci mostra come la perdita diventi una presenza silenziosa che modella il tempo, i gesti, perfino il linguaggio. Nina non guarisce: impara piuttosto a convivere con l’assenza, trasformandola in uno spazio di resistenza e di memoria. Il dolore, allora, non è più soltanto una ferita, ma una forma di conoscenza — un modo per tornare a vedere la realtà, pur attraverso la nebbia.
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In questa prospettiva, La ragazza di luce non cerca di dare consolazione, ma di offrire un nuovo punto di vista di continuità: chi è rimasto non potrà mai dimenticare chi è scomparso, ma solo attraverso il racconto riesce, il più delle volte, a rendere questa dimensione di distanza abitabile.
«La ragazza di luce» è un’opera luminosa e inquieta
La ragazza di luce (acquista) fa parte della collana Sperimentali di TerraRossa, che unisce solidità narrativa e originalità stilistica. Nel caso di Antonucci, prevale la prima: la scrittura è precisa, sorvegliata, capace di costruire un mondo coerente e credibile, dove il mistero è sempre in dialogo con l’emozione.
L’esordio di Germano Antonucci è un romanzo di formazione che parla di sopravvivenza, di fede, di ricostruzione, di chi impara a vivere senza lasciarsi schiacciare dal peso del ricordo. Un’opera luminosa e inquieta, che guarda alle macerie senza retorica, cercando in esse una forma possibile di rinascita — fragile, ma necessaria. Ed è forse proprio questa misura a renderlo convincente: la certezza che, per ora, basta continuare a cercare la luce.
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