«Un amore». La caduta in disgrazia di Nat

Romanzo finalista al Premio Strega Europeo 2022 che racconta la caduta in disgrazia e la consapevolezza della vergogna della protagonista

12 minuti di lettura
Un amore

Cosa significa esattamente essere cacciati dal Paradiso, o meglio, cadere in disgrazia? Secondo David Lurie, protagonista di Vergogna di J.M. Coetzee, significa ridursi «come un cane», ovvero «ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità».

Il concetto di disgrazia va di pari passo con quello di vergogna. Cadere in disgrazia vuol dire ricominciare da zero, esposto a qualsiasi tipo di umiliazione e cattiveria. Questa idea riecheggia anche in Un amore, romanzo della scrittrice spagnola Sara Mesa edito La Nuova Frontiera e finalista al Premio Strega Europeo 2022.

La trama di «Un amore»

Un amore ha per protagonista Natalia, nota semplicemente come Nat, di mestiere traduttrice. La donna si ritrova a La Escapa, paesino immaginario della Spagna rurale, dopo essersi licenziata dall’azienda per la quale lavorava a seguito di un furto. A La Escapa Nat deve confrontarsi con una comunità non avvezza a chi viene dalla città: gente di campagna come il padrone di casa, sempre burbero di fronte a ogni sua richiesta, poiché «in campagna sono brutali, cocciuti e spesso crudeli fino alla bestialità».

In questo contesto di solitudine, Nat dovrà imparare, parafrasando David Lurie, a vivere come un cane: a spogliarsi di tutto ciò che aveva prima, a vivere esclusa dagli altri e a subire ogni tipo di angheria. Da traduttrice, inoltre, dovrà imparare un nuovo linguaggio: quello dell’amore, da intendersi nel senso di sympathetic imagination, espressione tanto cara a J.M. Coetzee dal significato di “immaginazione empatica”, ovvero la capacità di spogliarsi di ogni preconcetto e provare empatia verso l’altro.

«Un amore»: l’influenza di J.M. Coetzee

Leggendo Un amore non si può che concordare con quanto scrive «El País», il cui strillo viene riportato in quarta di copertina: «leggendola [Sara Mesa] vengono subito in mente Camus, Faulkner e Vergogna di Coetzee». Se di Camus c’è il fatalismo, mentre di Faulkner l’ambientazione rurale e la sua durezza, il romanzo di Sara Mesa deve molto, però, a Vergogna di Coetzee, se non addirittura a tutta la poetica dell’autore sudafricano.

Di Coetzee, Mesa condivide innanzitutto la prosa scarna, diretta, che non risparmia niente e nessuno, pronta a mettere a nudo i silenzi, le trasgressioni e la vergogna di Nat e di tutti gli abitanti di La Escapa, compresi lo hippie Píter e il tedesco, che poi si rivelerà chiamarsi Andreas.

Leggi anche:
«Euforia» di Elin Cullhed: nella mente di Sylvia Plath

Come l’autore sudafricano, la scrittrice madrilena utilizza l’espediente metaletterario per portare avanti le sue tesi sulla vergogna di Nat. Se Coetzee in Vergogna riporta la vita e le poesie di George Byron, Mesa, invece, sfrutta la professione di traduttrice di Nat, intenta a tradurre delle brevi opere teatrali di un’autrice in esilio che scrive in francese, in cui si può riconoscere l’ungherese naturalizzata svizzera Ágota Kristóf (la frase «une qualité de silence en particulier» viene, infatti, dal dramma L’epidemia).

La difficoltà della comunicazione

L’intento metaletterario porta la protagonista a ragionare sulla lingua, mezzo attraverso cui comprende le sue scelte e il rapporto con gli altri, ma soprattutto quanto sia difficile comunicare con chi non appartiene alla propria realtà.

Tutto, quindi, assume un significato nuovo e diverso, soprattutto un animale come Fiele, il cane, un’altra immagine molto cara alla narrativa di Coetzee, in cui Nat si riconosce, poiché come questi anche lei si ritrova ad avere a che fare con un contesto nuovo in cui ripartire da zero di fronte alla diffidenza di tutti.

La lingua della vergogna

Per ripartire da zero, Nat si avvale, dunque, del suo lavoro di traduttrice. Il primo problema per la protagonista si presenta fin dall’inizio, quando si imbatte per la prima volta nel Monte Glauco. La giovane pensa di trovarsi di fronte a «un monte sinistro», perché «Glauco è un nome brutto, indubbiamente; deduce che derivi dal suo colore pallido e macilento. La parola glauco le ricorda un occhio malato […]». Nat si rende subito conto che la parola “glauco” ha un altro significato, ovvero «vuoto, inespressivo», e che «optare per una traduzione letterale, senza capire l’autentico spirito della frase, equivarrebbe a barare».

Tradurre per Nat significa immergersi nel significato profondo delle cose, soprattutto di se stessa e delle persone che la circondano. Se ne rende conto immedesimandosi nella prosa «rudimentale, perfino piatta» di Ágota Kristóf, che scriveva in francese, una seconda lingua mai imparata a padroneggiare senza errori:

Ora è costretta a verificare se la comparsa di ogni parola inattesa o ambigua si debba a un errore dovuto alla scarsa dimestichezza con la lingua o se non sia invece un effetto voluto dopo un’intensa riflessione.

Il legame fra le parole e le persone

Le parole portano Nat a provare vergogna. Attraverso la traduzione la giovane comprende come dietro ogni parola spesso si celi un significato che spesso va a denigrare la persona o la cosa verso cui si riferisce e a privarla dei propri sentimenti e della propria dignità.

Si pensi, appunto, a Fiele, il cane che farà compagnia alla donna. Egli viene definito dal suo vecchio proprietario “bestia”, «un significato qui diverso, irrispettoso», e il suo stesso nome rimanda alla bile prodotta dal fegato piuttosto che all’ira o alla collera. Anche ad Andreas tocca la stessa sorte; il soprannome che gli viene dato, il Tedesco, dà l’idea di una persona fredda e distaccata, «un uomo oscuro, manipolatore e sporco». In realtà, l’uomo è una persona sola, in cerca d’amore e dal passato tormentato che la gente nega.

Traduzione come riconoscimento della disgrazia

Traducendo, Nat giunge a una conclusione epifanica: la disgrazia in cui è caduta è una «sorta di fatalità irrevocabile». La protagonista prova vergogna perché ha riconosciuto di essere caduta in disgrazia, ma anche perché non può nulla per risolvere la miseria e la solitudine degli abitanti di La Escapa e di Andreas. La disgrazia consiste nell’essere destinata per sempre a parlare una lingua che non riesce a tradurre e comunicare. Nat deve, dunque, convivere con persone che non la comprenderanno mai. È da interpretarsi in questo senso, infatti, il “silenzio particolare” a cui Nat fa riferimento mentre traduce le parole di Kristóf:

Sulla scrivania c’è la traduzione lì dove l’ha lasciata, una pagina con una riflessione a proposito del silenzio, de notre silence en particulier, une qualité de silence en particulier. Ma se il silenzio è l’assenza di parole, come può esistere un silenzio in particolare? Non dovrebbero essere uguali tutti i silenzi, come è sempre uguale il colore bianco? È ovvio allora che a differenziare i silenzi è tutto ciò che li circonda, a cominciare dalle cause.

Il silenzio di Nat, Andreas e di tutta La Escapa è quello di coloro che hanno provato a comunicarsi senza spogliarsi delle proprie categorie: gitano, hippie, tedesco, straniera, etichette che indicano una continua esclusione dell’altro.

Leggi anche:
«Nina sull’argine»: arginare un mondo non reversibile

La cacciata dal Paradiso di Nat è proprio questo: l’essere capitata in una dimensione in cui deve imparare a privarsi di ogni categoria per avvicinarsi agli altri, provare a mettere da parte le parole per conoscere l’altro attraverso il corpo. Una questione difficile, ma che richiede il sacrificio di ciò che ci determina per porre «il grande e il piccolo, tutto insieme, sullo stesso piano mentale». Per tornare a Coetzee, Nat deve iniziare da capo come un cane: perdere tutto, anche la parola, per poter amare se stessi e gli altri.

«Un amore» di Sara Mesa: una cacciata dal Paradiso

Con Un amore (acquista) Sara Mesa pone al centro riflessioni ancora attuali al giorno d’oggi: il ruolo del potere e della violenza nei rapporti umani da un lato e l’uso delle parole dall’altro. Il mondo ritratto dall’autrice madrilena è una realtà di solitudine e desolazione dove ogni parola, anche la più innocente, risulta la più violenta, atta a rinchiudere in categorie ciò che ci circonda e a privare le persone della propria dignità.

Quello che resta da fare a Nat, per evitare di essere esclusa, è sacrificare tutto ciò in cui crede, le parole che usa, spogliarsi della propria pelle e privare gli altri della propria per conoscere il proprio dolore attraverso uno sforzo di “immaginazione empatica”.

Nat non sapeva quale peccato avesse commesso per essere punita a quel modo. Quando vide nel suo libro di religione un quadro di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso pensò: è quello che succede a me.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.