Lo sbilico (Einaudi, 2025) di Alcide Pierantozzi è un libro spiazzante e coraggioso, un mix tra autofiction, romanzo e diario clinico, ma anche una sorta di confessione personale che racconta la vita dentro la malattia mentale. Di questa non mostra solamente gli aspetti strettamente psicologici, ma anche quelli più tecnici: dai farmaci alle diagnosi, fino all’analisi più feroce della psiche contemporanea.
Vedersi impazzire è sentirsi tremare le gambe a furia di rimuginarci sopra, e io le ho sentite.Vedersi impazzire è sovrapporsi ad altri corpi, ad altre personalità, è cercare di ingannarsi da soli sulla consistenza di una paranoia.Vedersi impazzire è fare buon viso ai pensieri peggiori prima di crollare del tutto, è inventarsi sentieri sempre diversi per dare un giro di volta alle cose, è ripercorrere costantemente lo scritto e il cancellato della memoria.Vedersi impazzire è fare a botte con la luce, orientarla nei punti giusti del corpo, evitare che si sbrindelli tra le ombre.
In una scrittura che non è mai teorica, ma incredibilmente concreta sia per la materia trattata sia per il modo, il libro non è tradizionale come un qualsiasi diario clinico, ma è una fenomenologia della follia, del corpo e del sentire. Raccontato in prima persona con vari flashback e risvolti temporali e narrativi, lo stile immediato e crudo conquista subito il lettore grazie alla padronanza che l’autore ha delle parole e della verità che raccontano.
Lo “sbilico”: la malattia mentale messa a nudo
La letteratura da sempre è un recipiente molto comodo per le fragilità e le frustrazioni di ognuno. Sono tantissimi i diari clinici che raccontano esperienze di dissociazione oppure di sofferenza estrema e in generale di malattia mentale. Pensiamo ad Antonin Artaud, poeta e attore francese internato nei manicomi per gran parte della sua vita, autore di Questo corpo è un uomo. Non è un caso che anche qui si parli di corpo, in quanto Lo sbilico ha come immenso protagonista il corpo stesso: Artaud nella sua opera (404 quaderni di scuola a quadretti riempiti con disordinate annotazioni e disegni) mostra un corpo teatro della mente, una mente che urla e si esprime e scrive per non morire, per non perire e impazzire definitivamente.
In Lo sbilico di Pierantozzi la follia è quasi farmacologica, sempre corredata da riferimenti a psicofarmaci e al corpo che è l’universo principale da cui si disgrega tutto il dramma. Dal modo di percepire il proprio corpo, fino alla palestra e alla nudità. Scardina ciò che comporta una malattia mentale in maniera originale e profondamente sincera, e il lettore può fidarsi totalmente dell’autore immedesimandosi in ciò che dice senza curarsi se sia solo autofiction o memoir. Conta di più il corpo che buca la pagina, la sua sofferenza e il suo squilibrio espressi senza fare un vuoto teatro del dolore, ma raccontando una storia che sa di vero, di sangue, di vomito e di ferita.
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Un protagonista onesto e non eccentrico
Nel romanzo l’atto stesso dello scrivere non è la solita indagine dentro di sé operata da scritture autobiografiche: non si realizza un movimento “interno” verso di sé, bensì un’esplosione verso l’esterno, alla ricerca di altro oltre al sé, di sinonimi, di parole nuove. La pazzia porta all’ossessione, ma questa ossessione non scandalizza il lettore e neppure lo spaventa, se mai lo colpisce, lo infiamma, lo pone all’interno del dramma. Ciò grazie a un protagonista costruito con profonda onestà.
La voce dell’autore è infatti fatta di immediatezza ed estro spontaneo. Il pregio principale della narrazione e di tutto il libro è il fatto che sia evidente come a Pierantozzi, contrariamente quanto sospettato da alcuni, non importi di rendersi “interessante”. Negli ultimi tempi, infatti, oltre al sempre (per fortuna) crescente dibattito sull’importanza della salute mentale si è fatta strada anche la “mania” per personaggi con disturbi mentali concepiti come affascinanti o eccentrici. Questa pornografia della psicosi o del dolore ha preso piede soprattutto grazie a personaggi come il Joker (soprattutto quello di Joaquin Phoenix, pronto a rivoluzionare il mondo e a diventare un super “cattivo”), ma anche grazie a vari personaggi i cui disturbi mentali li rendono affascinanti outsider (pensiamo a personaggi come Patrick Bateman o Donnie Darko) oppure geniali intellettuali anche “grazie” alla dipendenza da farmaci (Dr. House, ispirato a Sherlock Holmes, fra tutti).
Alcide Pierantozzi ha creato, invece, una persona “comune”: benché il romanzo parli dei suoi disturbi mentali, non esiste in funzione di quelli e basta. Certo è chiara l’intenzione di condividere anche per aiutare qualcuno che si trovi in una simile condizione e per far capire anche a chi non ne sa nulla cosa significhi sentirsi “difettosi”. Ma si mette in evidenza anche come la gente si stupisca che abbia delle “competenze normali” o che non sia solamente quello che hanno descritto gli psichiatri. Anche se va sempre in palestra o dorme ancora con la madre o prende dei farmaci, questi non sono aspetti volti ad affascinare per la loro “bizzarria”, ma semplicemente aspetti suoi, come quelli di chiunque altro.
L’autofiction oltre sé stessa
Nel panorama dell’autofiction, Lo sbilico (acquista) si distingue per radicalità e non facilità, in quanto mette volutamente a disagio e cala nel mondo reale. Sin dall’inizio Pierantozzi dice di dormire ancora con la madre, adoperando il presente e un linguaggio diretto, chiaro e mai schivo, per comunicare direttamente con il lettore. Non c’è una volontà di fare male o di stupire, ma un racconto vero e profondamente onesto scritto da chi sa come scrivere e sa come parlare. Le parole e la scrittura sono le grandi protagoniste, seppur spesso tacite: dimostrano che la mente può rompersi ed è semplicemente rotta, ma non è solo questo.
Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l’ordine alfabetico. Quando leggevo così, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava. Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m’interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La verità che racconta è quella di una sanità complicata, come complicata è la condizione che il protagonista vive, ma mai con l’idea di stupire o denunciare. L’idea centrale sembra essere proprio quella di raccontare, semplicemente, facendo intuire al lettore tante cose. Sta a chi legge mettere insieme il puzzle di questo febbrile diario clinico: un flusso di coscienza perfettamente organizzato che si legge tutto d’un fiato.
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