Tre inediti di Francesca Valenti

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Illustrazione di Manuel Cristani per Tre poesie inedite di Francesca Valenti

«Miracolo esistere»

Miracolo esistere,
di infinite evenienze varcarne
una. Biologia tracotante
contro cinismo.
Si dice: l’Uomo è essere pensante.
Energia, caos vagheggiante è
pensare; impossibile
dire. Mediazione troppo grande
dal mio intimo permette
l’attracco al tuo.
Lascia che il flusso resti scarno.
L’Uomo è essere intelligente.
Se io costringo
immensità in poche parole,
leggi l’interno e amplifica
e prendi possesso
e fai della mia carenza
esaustività.

«Vulnus»

La spada colpisce la pelle
trapassa la cute, apre le vene.

Vulnus dicevano.
Sangue è vulnerabilità
Sostanza di vita e morte.

Vita vulnerabile vivo.

Sanguina l’anima perché c’è sangue
in ogni angolo del corpo.

«Non ho mai capito»

Non ho ben compreso
le tradizioni
che si tramandano

e rimandano
alle vecchie abitudini
alle povere vecchie
che scuoiavano bestie.
Non ho mai capito
l’importanza del rito
della ripetizione

del ciclo di azioni
incessante, il ritmo
dei canti popolari.
Non sono brava
non mi applico al rispetto
degli schemi formali
dei disegni ancestrali.
Mi piace trovare strade
sentieri
percorsi diversi
dai soliti due che senti
che vedi.
Che non dicono niente
ma la gente almeno non teme.

Francesca Valenti, autrice di poesie “da recitare”

Francesca Valenti, classe 2000, è laureanda in Psicobiologia e neuroscienze cognitive presso l’Università di Parma. Negli anni ha sviluppato una vera e propria passione e dedizione verso il teatro che l’ha portata anche a diventare attrice in diverse compagnie teatrali, soprattutto nella sua città di origine, Brescia.

Per la prima volta Francesca Valenti propone al pubblico tre poesie. Solitamente si cimenta in componimenti di ben più largo respiro che, con giochi di parole, rimandi e assonanze, ben si prestano alla rappresentazione teatrale. C’è un gusto tutto particolare per la parola scritta e recitata. Autrice di monologhi, in bilico fra la favola e la tragedia, in questa occasione propone testi certamente più raccolti, intimi, ma che non rinunciano comunque alla sonorità e al gioco.

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Tuttavia, sarebbe un errore arginare la produzione di Francesca Valenti a un semplice divertissement. Nei versi si colgono temi tipici della poesia del secondo Novecento italiano: l’alienazione, il disagio e il senso di colpa sono onnipresenti. L’ansia di vivere e, di conseguenza, sbagliare diventa un leitmotiv costante, enfatizzato da un verso che spesso viene troncato sul nascere.

Si pensi, ad esempio, a Miracolo esistere, dove la lettura spezzata richiama una rottura, la consapevolezza di non raggiungere una sintesi convincente. Il perenne scontro fra apollineo e dionisiaco trova una soluzione nella carenza che, con umiltà e fiducia, potrebbe diventare esaustività. Si tratta di un percorso di crescita, in divenire, senza la velleità di trovare soluzioni. Tuttavia, forse, l’atteggiamento propositivo che Francesca indaga è il canto, la recitazione. In questo senso vengono a supporto le parole di Rainer Maria Rilke:

Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
A me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose.

La comunione della ferita

Nei tre componimenti viene utilizzato un vocabolario semplice, immediato, che trovano un loro exploit nel finale, come nelle poesie di Wisława Szymborska.

Nelle poesie di Francesca Valenti non c’è disattenzione, anzi. Spesso la sua è una consapevolezza dolorosa, fatta di ferite, tagli e squarci, dove il corpo diventa un medium per rappresentare la tribolazione interiore. La poesia di Francesca Valenti sanguina, perché diventa parte del suo essere, anche in senso biologico. Per questo motivo il paesaggio nei suoi componimenti è totalmente assente.

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La riflessione diventa l’unico modo per intendere la realtà. C’è un gusto tutto particolare nell’esaminare i propri traumi, dove il confine fra vittima e carnefice, giudice e imputato, si fa sempre più sottile, labile.

Francesca Valenti è in divenire, in uno stato preliminare. La sua è ancora un’indagine, non si è ancora giunti alla disperazione, a quella «calma, senza sgomento», per citare Giorgio Caproni.

Vulnus è così un dato di fatto, una constatazione che sa di solitudine, ma anche di fiera indipendenza. E se la guarigione, o almeno il placebo, non si trova necessariamente in un altro essere umano, si può ricercare comunque nella parola. E ancora una volta, la rappresentazione, la cura, potrebbe diventare un gesto apotropaico, dove la lettera e la voce diventano musica. Per riprendere il Dialogo di Giuseppe Ungaretti:

Ma se mi guardi con pietà,
E mi parli, si diffonde una musica,
Dimentico che brucia la ferita.

Un rito collettivo

In Francesca Valenti la violenza ripercorre i versi, come scuotendoli da un apparente tepore. La sua poesia vibra, procedendo prima lentamente, come un monologo, e poi trovando una sua conclusione in un finale che manifesta più che rassegnazione, disillusione. Per certi aspetti, si tratta di una poesia visiva che, però, trova conforto nell’adagio del pensiero.

In Non ho mai capito, soprattutto, l’autrice si addentra idealmente in una selva senza tempo, dove il passato delle tradizioni incontra le aspettative odierne e rimane consapevole che la sua scelta, qualunque essa sia, sarà condizionata dalla società.

Francesca Valenti è consapevole delle difficoltà e degli argini e se il suo, almeno per il momento, non diventa un gesto rivoluzionario si tramuta nel primo passo verso la maturità.

Questi componimenti avranno occasione, insieme ad altri, di essere letti davanti a un pubblico. Diventeranno parte di un rito, di una testimonianza degna della più autentica crescita. Il cambiamento rimane sempre e comunque un trauma, ma la poesia, come quella di Francesca Valenti, allevia e consola.

L’autrice

Francesca Valenti è nata a Brescia il 13 luglio 2000. Da sempre affascinata dall’espressione artistica, frequenta dapprima le scuole musicali, per poi dedicarsi agli studi di recitazione teatrale e cinematografica, che la portano vivere per un periodo a Napoli. Nel frattempo, si laurea in Psicologia e si appassiona alle Neuroscienze; i suoi interessi accademici vertono sulle teorie della simulazione incarnata, a partire dalla ricerca sui neuroni specchio, che hanno particolare rilevanza in ambito artistico. Continua a coltivare la scrittura, passione scoperta sui banchi di scuola, che culmina nella pubblicazione del libro Viola (Pegasus Edition, 2024). Attualmente frequenta l’Università di Parma ed è attiva in due compagnie teatrali bresciane (Laboratorio Metamorfosi e Dadi Truccati). È in fase di creazione del suo primo spettacolo.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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