Un poemetto magico

«Ventilabro-Scotellariana» di Francesco De Napoli

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«Ventilabro-Scotellariana» di Francesco De Napoli

Ventilabro è un poemetto magico nel quale le visioni trasognate e un po’ misteriche rispecchiano e inquadrano i tanti aspetti di una realtà oggettiva ma sfuggente, nello sforzo di fissarla e penetrarla in profondità onde interpretarla e trasfigurarla in altro, in qualcosa di diverso rispetto alle sempre limitate e fenomeniche sembianze esteriori.    

È questa un’opera tanto meticolosa quanto appassionata, realizzata diligentemente dall’autore quasi «come tra i banchi all’appello un vispo scolaretto» (Canto III) – sensibile e attento alle variegate sfumature del vissuto -, avrebbe potuto svolgere il compito assegnatogli dalla magistra natura.

Un racconto autobiografico sui ritorni

È un lavoro che ha tenuto impegnato Francesco De Napoli per quasi un decennio, dal 2012 al 2019, come si legge in una nota posta a conclusione del volume. Si tratta del racconto autobiografico del ritorno – meglio, dei ritorni, come vedremo – in Lucania, la regione che diede i natali al poeta, da bambino trasferitosi nel Lazio meridionale insieme con i suoi familiari.

Dobbiamo infatti credere che si sia trattato di più “viaggi”, di più “ritorni” nella terra natale, tasselli che, tutti insieme, hanno formato il mosaico di Ventilabro. Ciò per diverse ragioni. Anzitutto, pur essendo la Basilicata una regione di modeste dimensioni geografiche, è impensabile che nel corso di una sola stagione (presumibilmente in estate) l’autore abbia potuto visitare tutte le città, le vallate e i villaggi descritti nel poemetto. Inoltre il particolare sopra riportato, vale a dire la composizione del testo nel lungo lasso di tempo 2012/2019, lascia pensare a più trasferte, a più rivisitazioni, a più verifiche dirette in loco

De Napoli ricostruisce, dunque, numerose e sofferte escursioni in terra lucana alla luce di un itinerario affettivo e intellettuale davvero variegato e intenso. In ogni occasione propizia l’autore si rivolge affettuosamente al poeta della civiltà contadina Rocco Scotellaro, elevato a propria guida spirituale e ad interlocutore ideale, di qui il sottotitolo Scotellariana.

Basilicata in distici elegiaci

A dispetto della sua folgorante brevità quasi inintelligibile, a ben vedere Ventilabro – diviso in quattro Canti composti da distici elegiaci – rappresenta l’anello di congiunzione che mancava, il testo cruciale in grado di tirare le somme sulle illusioni e le disillusioni della popolazione lucana, dagli anni incantati delle battaglie politiche e civili del grande Scotellaro fino ai giorni nostri, per offrirci un affresco genuino di un angolo del Mezzogiorno rimasto, in parte, intatto e contaminato ma come dimenticato, considerato fino a oggi un’esclusiva miniera di conoscenze e il cantiere privilegiato per gli studi e le ricerche degli etnologi e antropologi di tutto il mondo.

Scrive il grande Maestro Emerico Giachery, Decano dei Docenti dell’Università Tor Vergata, nella sua sapiente, minuziosa e lucida Prefazione:

L’impressione molto positiva prodotta dal poemetto scaturisce dalla sua novità rispetto alla poesia solitamente frequentata, novità tutt’altro che snobistica o intellettualistica, alimentata da un attaccamento non sentimentale, anzi duro e severo, alla propria terra. Una dedizione che si definisce nell’intento umano, letterario e poetico – pienamente riuscito – di farla esistere sul piano espressivo non ricorrendo, come Albino Pierro, al dialetto, ma lasciando affiorare, aspri e densi come pietre, echi e accenti che evocano e denotano un mondo disperatamente amato e forse perduto.

Ciò significa che l’osservazione di Francesco De Napoli implicitamente svela e denuncia i limiti della idealizzazione d’una presunta atavica continuità di rituali e tradizioni, concretizzatasi in diversi poeti e scrittori anche attraverso il recupero di antiche forme dialettali. Al contrario, quello intrapreso dal nostro autore è un percorso accidentato nel tempo presente, che non insegue né rimpiange i linguaggi e le consuetudini del passato in quanto la sua è un’indagine che registra voci, locuzioni, umori e tendenze – anche piuttosto volgari – dell’epoca che viviamo, quella dell’omologazione selvaggia dei costumi e della morale.

L’autore non fa altro che limitarsi a mettere insieme, con avveduta semplicità di canto, i frammenti concreti ma diversificati e ibridi di un microcosmo divenuto più che mai strambo e incomprensibile. È una mutazione quasi genetica – si vedano i taglienti versi dedicati ai giacimenti e all’estrazione del petrolio in Lucania – le cui cause precise restano ignote persino ai maggiori esperti. De Napoli non cerca di spiegare le ragioni di tutto ciò ma si limita a riportare, spesso ironica bizzarria, ciò che vede, e forse proprio per questo il poemetto raggiunge vette poetiche affascinanti e, a tratti, sconvolgenti.

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L’umana condizione

È anche vero che De Napoli, non soltanto scrittore e poeta, ma anche esperto studioso di scienze sociali, ha fatto propri gli insegnamenti di Ernesto De Martino, laddove il grande etnologo spiegò come l’ «esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale». È questa la cosiddetta “presenza” di tipo dialettico nel tempo e nella storia, intesa come l’ethos comportamentale che, all’improvviso, può venire a mancare fino a provocare un senso di spaesamento, insieme con la crisi e la perdita dei valori della stessa presenza.

È una umana condizione di smarrimento esistenziale che l’autore rileva osservando sé stesso al presente, uno status che egli registra meticolosamente nel poemetto nel corso delle sue esplorazioni. Nel suo curioso aggirarsi «tra ludimagistri a schiera», egli lascia intendere che tale condizione sia ormai divenuta comune a buona parte dei lucani, caratterialmente remissivi anche se non troppo fedeli interpreti degli insegnamenti cristiani che pure professano. Tutto ciò affiora con disarmante scioltezza in molti versi, tra i quali i seguenti del Canto I:

(…) Difficile riconoscere

la mala pianta che ammorbati letarghi
intacca d’innocenti votati alla mattanza,

impossibile sradicarla: in troppi sanano
scellerate empietà – non pagliuzze, piedritti –

con la sdegnosa e indifferente supponenza
ricondotta all’indigenza umana, alla cristiana

sofferenza. È lo sprezzo truce di chi d’instinto
obbedisce allo statuto della sopravvivenza.

Un pometto etico-civile

Anche la natura e il paesaggio hanno uno spazio preciso che consiste nel contrapporsi, con la loro millenaria immobilità oltraggiata dagli impeti e dalle turbolenze umane, all’odierna frenesia consumistica, come emerge dai versi che aprono il Canto II:

Tra le dolomitiche creste dell’imbiancata
tratta, saltando il brago e l’erba trinita,

affondavo nell’usuale noùmeno mio.
Un dio scrignuto invocavo che dai cirri

calasse come demone o titano ad accogliere
la mia brilla e languida cantillazione.

Tremante rotolavo dai calanchi, incredulo
roteando, salvo, un ritorto cormo: caldi vapori

e lingue di fuoco spargevano i roventi bulbi
fino a lambire me, sfiancato camminante.

È questa una poesia etico-civile che andrebbe riallacciata idealmente al poemetto Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini. De Napoli si aggrappa a qualsiasi brandello di cielo e terra, di montagne e nuvole, di borghi e vicoli in grado di stimolare sensazioni di rassicurante coinvolgimento e presenza tra gli uomini della sua terra.

Omaggio a Rocco Scotellaro

I versi più ispirati sono quelli ambientati a Tricarico, la città natale di Scotellaro, accanto a quelli finali quando l’autore rientra nella natia Potenza

Ecco il passaggio in cui De Napoli descrive il suo arrivo a Tricarico e la sua visita alla casa natale dell’autore di È fatto giorno:

Vagendo appena giunsi nella tua casa di luce,
per l’esattezza risi disperato eppure rincuorato,

fauno selvatico saturo e incinto di te, pronto
a sgravare senza mammane, ruffiane puttane

e dubbie muse ispiratrici, scagliando spire
arroventate d’inchiostro. La malvagità stemperai

eccitato in astratta indifferenza, salendo quei ripidi
gradini: giaceva là – chissà da quando – un trifoglio

avvizzito come il tuo fragile essere, cantastorie
reciso. (…) Come reliquia lo colsi da quel letto di pietra (…).

Potenza, «città verticale»

I versi dedicati Potenza, nota come la «città verticale», sono i più austeri ma anche i più dolci e intimi. Sono memorie dolorose, perché rivangano una prima infanzia assai triste e sacrificata in quanto trascorsa tra miseria, neve e gelo:

Nel vuoto quietamente sospesa l’irta Potenza
negata alla romanità contempla metafisica, ascetica

montani torrioni incapaci di farsi minacciosi.
Non esiste più fascinoso incanto del notturno

baluardo dove elegiaco appuntamento si danno
gli epici indulgenti espero noto euro aquilone.

I più impetuosi venti, i più travolgenti qui sono
fermi e silenti. Nessuno ne parla, sono intimi

come avi, come fratelli (…).

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Immagini di memorie

La conclusione vede intrecciarsi le immagini e le memorie struggenti del potentino Vicolo di San Bonaventura, dove nacque l’autore, con un ultimo e serrato monologo/dialogo con Scotellaro, che ripercorre e rimarca il difficile ma fondamentale ruolo di uomo di sinistra, oltremodo scomodo e inviso a molti, svolto con abnegazione dal poeta di Tricarico, scomparso giovanissimo appena trentenne:  

A morte colpito in affetti, gravami, virtù e ideali,

serafico abbattesti – fiero dell’addio – muri e steccati,
novizio riottoso ai fuochi fatui ma fedele

ai motivi antichi, ai ritornelli amari e vaghi
di Via Pretoria, fino ai sussurri e agli echi

del lembo ovattato nel vicolo di Bonaventura,
taumaturgo beato. Come tremebonda cella

quel buio altare scansavo: era la mia culla
di fronte a un palmo, dello sfuggente vicinato

ospitale tinello quando la neve angosce e attese
smorzava. Rivedo le persiane sgangherate,

l’uscio spalancato sulla lambita stanza da raggi
rifratti a ognora ventilata, scossa a ogni scampanio.

In labirinti di svelati non luoghi l’anima vinta
si perde e si sazia. Placata, è resa alla terra.

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Redazione MM

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