«Non scrivo romanzi. Scrivo solo frammenti»

«Autoritratto» di Édouard Levé

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«Autoritratto» di Édouard Levé

Oltre a Suicidio, edito da Bompiani, non era mai apparso nulla di Édouard Levé nelle librerie italiane. Da quest’anno, grazie a Quodlibet, viene pubblicato per la prima volta Autoritratto.

L’invito alla lettura è un’appassionata quarta di copertina a cura di Emmanuel Carrère. L’autore de L’avversario parla di un libro che va letto ad alta voce, composto da frasi che si susseguono e che, in un certo qual modo, rimangono impresse nella mente del lettore. Una lettura programmatica, come lo sono anche i titoli degli unici quattro libri di Levé.

«Autoritratto», un’autobiografia minimalista

A una prima impressione Autoritratto non sembra altro che il susseguirsi convulso di frasi che hanno come unico obiettivo di descrivere in maniera aneddotica la vita dell’autore. Un’autobiografia minimalista, composta dagli accidenti della vita che, però, coerentemente con la lezione di François de La Rochefoucauld, mantengono una loro connotazione aforistica.

D’altronde è lo stesso Levé a dichiarare: «Non scrivo romanzi. Non scrivo racconti. Non scrivo opere teatrali. Non scrivo poesie. Non scrivo gialli. Non scrivo fantascienza. Scrivo solo frammenti».

Frammenti di un’oggettivazione disarmante, nonostante non facciano altro che descrivere esperienze e impressioni totalmente personali.

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Verso un’attendibile verosimiglianza

Levé non ricerca l’empatia e la comprensione, né tantomeno, come precisa, il compatimento. La sua non è ricerca del linguaggio, ma definizione di uno stile tramite l’incisività della quotidianità del pensiero.

In Autoritratto c’è una nobiltà d’animo nell’accettare il tempo e le sue contraddizioni: è un’arte soppesare la noia e registrarne i dettagli. Lo scrittore, così, disseziona la realtà per poi ricomporla e riportarla alla sua forma originaria o, perlomeno, a un’attendibile verosimiglianza: «Sono più interessato alla neutralità e all’anonimato della lingua comune che ai tentativi dei poeti di creare una loro lingua, il resoconto fattuale, per me, è la più bella poesia non poetica che ci sia».

L’ironia, per quanto elegante possa mostrarsi, è soppesata e giustamente oscurata a favore di una lucida obiettività: «Sono contento di essere contento, sono triste di essere triste, ma posso anche essere contento di essere triste o triste di essere contento».

Lo stile delle idee

Dalle banalità anagrafiche si passa alla descrizione di fantasie oniriche, dalle peculiarità caratteriali non sempre contestualizzate al resoconto di passioni, avvenimenti e folgorazioni epifaniche. D’altronde, come scrive lo stesso Levé: «Il mio stile è fatto più dalle mie idee che dalle mie parole».

Dunque, frasi semplici, scarne, che sembrano vadano a formare un Super 8. Una pellicola il cui fascino risiede proprio nella mancanza di continuità e che, tuttavia, riesce comunque a trovare una sua vena espositiva. Sobrietà del linguaggio che si ritrova anche nella massima: «Non amo il virtuosismo, confonde l’arte con l’abilità».

Autoritratto è un libro tanto di analisi quanto di intuizioni. Un testo sulla ricerca di senso che custodisce in sé anche il tentativo di addomesticare la propria esistenza. È evidente la necessità di sistematizzare se non le istruzioni per l’uso della vita, almeno un dizionario senza lemmi per comprenderla: «Un giorno ho detto al mio analista: “Non riesco a godere di ciò che possiedo”, e ho pianto».

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La registrazione del significato

In Levé viene registrato il significato di ciò che sta accadendo con una progressiva dissoluzione di sé: «Il mio nome e il mio cognome non significano niente per me. Se mi guardo allo specchio a lungo a un certo punto il mio viso perde significato». Non ci sono giudizi ex post, ma una consapevole rassegnazione.

In Autoritratto non viene affrontato l’esaurimento dei luoghi come in Georges Perec, ma sono elaborati partendo dall’io. Quella che potrebbe sembrare una prova di stile buona per qualche esercizio di scrittura creativa, diventa un’opera che va oltre il compilativo e il didascalico.

Autoritratto (acquista) è un libro sullo sparire, sull’accettazione dell’inevitabile scomparsa, sul tentativo di ricordare scrivendo per poi abbandonarsi e, forse, ritrovarsi: «Nelle audiocassette appena registrate non ascolto il contenuto delle parole, ma il suono della mia voce: il turbamento non viene tanto dallo sdoppiamento, quanto dalla scomparsa del significato».

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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