Tutti noi conosciamo un bar Sport. E tutti noi, conoscendo un bar Sport, sappiamo che dei bar questo non è che l’emblema, un aleph dove tutti i minuscoli bar, s’affacciano ordinatamente. Parafrasando Jorge Luis Borges, il bar Sport non è che «il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i bar della terra, visti da tutti gli angoli».
Il bar Sport può essere tutto, basta scegliere una voce dalla lista inselvatichita di forme ontologiche da bar. Bar di provincia, di centro città, sporco, pulito, aperto tutta la notte o solo fino all’una, opzione pranzo, mattonelle marroni, pala del ventilatore a soffitto o porta sempre aperta, macchinette sì, biliardino no, sedie dentro e fuori in plastica, sedie solo dentro, sedie solo fuori…
Il lettore scelga pure una forma a caso, senza remore e crucci, perché non è l’ontologia del bar ciò che importa, quanto più il marasma antropologico umano che trasuda dalle sue branchie. Ovverosia il microcosmo di peculiarità, storie talmente inventate da risultare banali e troppo assurde per non essere vere, di miti, eroi e antieroi che ogni giorno popolano il bar Sport.
Dalla penna di Stefano Benni, autore di questo romanzo ormai diventato un classico dell’umorismo e della satira italiana, nasce una fauna di protagonisti talmente diversa e irreprensibile, da non trovare una collocazione se non nel quotidiano, nell’esperienza condivisa di scendere a bere un caffè sotto casa e ritrovarsi improvvisamente, tra la “gente da bar”.
Criteri d’inclusione
L’elemento autoriale più convincente di Bar Sport è l’attenzione microscopica, quasi da romanziere verista, con la quale Benni osserva ed inchioda i suoi personaggi alla pagina. Questo perché, come si è detto, non è la forma del bar, quanto il suo capitale umano, a rendere un bar un buon bar Sport. Difatti…
Un bar Sport possiede un richiamo tanto maggiore, quanto più organicamente possiede attrazioni: ad esempio, è perfettamente inutile che un bar possieda un buon biliardo, se non ha un buon scemo da bar. E parimenti, un bar che possiede uno scemo di ottima qualità, non può competere con un bar che abbia un mediocre scemo ma che possa sfoggiare un ombrello dimenticato da Haller. I bar più di classe hanno un vero e proprio mercato di attrazioni, con pezzi pregiati: un buon tecnico da discussione del lunedì, ad esempio, viene valutato mezzo milione; un fattorino cantante con un sopracciglio basso vale almeno due flipper o, a preferenza, un flipper e una foto gigante firmata di Bartali sull’Izoard.
Insomma, ogni bar Sport ha i propri pezzi pregiati, che vanno e vengono pur affidando una parte di loro stessi alla cura di quelle quattro mura, accoglienti come un utero materno. Come se la vita non fosse altro che una serie di luoghi casuali da riempire in attesa di tornare al bar, le conversazioni spicciole uno sciocco perditempo per tenere la lingua allenata, di modo da poter poi discutere delle cose veramente importanti, ossia «campioni, sfide, cappuccini, centravanti, sbronze, trasferte, sesso, meringhe e il programma del cinema Sagittario».
Il bar Sport non può che essere, a suo modo, una città invisibile di Calvino, ove la più banale delle opinioni, la più rozza descrizione, appena viene pronunciata ad alta voce, diventa eredità spirituale. Si va così arricchendo un repertorio di conoscenze comuni -forse un inconscio collettivo, avrebbe detto Carl Gustav Jung, se fosse stato un tipo da bar- dal quale vecchi e nuovi avventori possono attingere per comprendere come si struttura la vita nella loro minuscola città invisibile. Per questo è importante che al bar Sport si parli, innanzitutto, e soltanto dopo si conoscano le cose.
Leggi anche:
Innamorati di Italo Calvino
Gente da bar
Chi è, dunque, questa gente da bar? I troppo caratterizzati, quelli dal cuore semplice, i sognatori dal futuro disilluso, gli illusi che non hanno mai smesso segretamente di inseguire un sogno, chi vive per il grande Milan e chi per la curva del Bologna, quelli che stringono patti con la solitudine giocando al flipper, quelli che credono che il caffè vada bevuto in silenzio, quelli che vivono per raccontarlo, quelli che aspettano il giorno in cui la loro fretta verrà interrotta da una chiacchera sconosciuta.
Chi, come il ragionier Nizzi, si innamora di Clara, la barista, della sua scollatura a V e delle monetine che fa tintinnare nella mano. Chi, come il professor Piscopo, divaga sulla natura umana facendo intristire i suoi interlocutori per la complessità dei pensieri, e chi, pur non capendo le divagazioni, riesce in tutti gli aspetti della vita materiale, come Bovinelli tuttofare. Il Cinno, «la spalla del barista», destinato al lavoro di fattorino da una docile stella, il bimbo del gelato, che sgattaiola nel freezer e gli si ghiaccia la testa. Il nonno da bar, che fuma toscani e sputacchia. Il tecnico, «l’anima, sangue e ossigeno» delle discussioni da bar, che parla di «calcio, di sport in genere, di politica, di morale, di macchine, di agricoltura, di prezzi della frutta, di diabete, di sesso, di trattori, di cinema, di imbottigliamento, di spionaggio. In una parola, di tutto».
E poi ancora, il pescatore, affettuoso ma di passaggio, con il cuore all’acqua; il playboy, che si presenta una sera sì e una no cosicchè gli venga chiesto dov’era il giorno prima. Il playboy che riscrive la realtà, con quella grafia leggera e quel modo di pensare etereo ma anche drammaticamente banale delle lucine in cerca di una nuova fugace fiamma. Questa è la fauna da bar, puntinata di persone normali, striate dalla semplicità della vita, dalla consapevolezza che è più facile accettare la realtà, se si ha un posto dove sedersi a raccontarla.
Nel guscio di una noce
Sebbene gli avventori non lo vogliano ammettere, i bar sono pieni di nostalgia. E da questa saudade non si sottrae, non può sottrarsi, nemmeno il bar Sport, bar dei bar. Qual è dunque l’argomento dei suoi sospiri? Dei suoi malinconici rammarichi? Il lettore ne conosce la risposta: l’Italia che c’è stata. L’Italia grande tovaglia, con ricami di piccole città, con i bar posti al centro di quegli agglomerati di vita come piccoli ombelichi. L’Italia che parla al telefono fisso, che combatte lo scontro intergenerazionale tra chi sa giocare al flipper e chi no, tra chi ha il walkman e chi non crede che la musica si possa portare in giro. L’Italia che cade rumorosa, sapendo ridere di sé stessa. L’Italia calcio e ciclismo, l’Italia francobollo e cartolina ingiallita: tanti saluti dalla Riviera.
Il Bar Sport (acquista libro) è insito in quest’Italia, ne è un attributo fondamentale, un requisito imprescindibile. Andrebbe forse scritto nella Costituzione: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e sostenuta dalle chiacchiere nei bar. E chiunque entri dentro il Bar Sport utilizzando la porta sul retro, ovvero quello spiraglio aperto nello spazio tra il titolo del primo capitolo e il suo incipit, troverà una sostanziale nostalgia ad attenderlo. A qualcuno verrà per amore dei tempi perduti, ad altri per la devastante consapevolezza d’esser nati troppo tardi. Perché, come ci dice Fernando Pessoa, «alla fine, arrivano sempre i ricordi, con le loro nostalgie e la loro speranza, e un sorriso di magia alla finestra del mondo, quello che vorremmo, bussando alla porta di quello che siamo».
Ma qualunque sia la nostra personale e combattuta nostalgia, qualsiasi cosa sia quel che andiamo cercando, varcata la porta di quel bar torniamo a essere tutti uguali: gente da bar, gente che, parafrasando William Shakespeare, vive nel guscio di una noce e, talvolta, tra quei tavolini unti di chiacchiere semplici, arriva a sentirsi re dell’infinito. Ed è su questa nota lontana, di un poeta da pub, che «Mario manda tutti a nanna e poi chiude il bar». (Bar Mario, Luciano Ligabue).
Leggi anche:
Innamorati di William Shakespeare
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!