Ritrovare la voce nella solitudine

«Baumgartner» di Paul Auster

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«Baumgartner» di Paul Auster

Baumgartner è il ritorno alla narrativa di Paul Auster dopo sei anni dall’uscita dell’acclamato 4 3 2 1. Auster non delude ancora una volta i suoi lettori, consegnando di nuovo un volume totalmente fedele alla sua idea di letteratura. 

Siamo di fronte a un libro decisamente più ragionato, riflessivo, non tanto nella forma quanto nell’evocazione di immagini. I fatti non si susseguono spasmodicamente in un jazz convulso e frenetico, ma piuttosto in un adagio che, nel corso della lettura, gradualmente, conquista.

Gli spazi della narrazioni non sono spazi sconfinati o cittadine di passaggio, così ideali per l’avventura, ma sono le pareti della mente di un uomo che, superati i settant’anni, soppesa la propria esistenza.

Gli accidenti della quotidianità

Seymour T. Baumgartner è professore universitario, autore di diverse pubblicazioni di carattere filosofico, che si trova solo in una grande abitazione dopo la morte della moglie avvenuta dieci anni prima. La sua vita è contraddistinta dalle devozione verso il proprio lavoro, a cui dedica la maggior parte delle energie e del tempo. 

Il resto sono accidenti della quotidianità, in cui dimostra una certa insofferenza o, più precisamente, distrazione. Tuttavia, il vecchio Baumgartner non è un personaggio schivo: infatti emerge il suo chiaro bisogno di confrontarsi, proprio per rifuggire dalla solitudine che diviene sempre più claustrofobica. Il terrore della morte e dell’impossibilità di mantenere viva la moglie scomparsa anche solo con il pensiero, la memoria, diventa una consapevolezza angosciante:

Sarebbe assurdo credere che i suoi pensieri mantengano Anna in un aldilà disincarnato, di puro spirito, che già solo restando in vita sulla terra le abbia permesso di rimanere in contatto con lui dall’avamposto subatomico del Grande Nulla, ma dato che l’autore di queste assurdità è lui, non può liquidarle subito come tali né fingere che non gli abbiano donato un po’ di conforto spirituale, perché lui è sempre stato in contatto con Anna dal giorno in cui è annegata.

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Sulla memoria

Un’analisi della memoria, della ineluttabile fine, del baratro verso l’ignoto. Una discorso che assume i contorni più definiti rispetto a una velleitaria speculazione che, fra le altre cose, analizza anche la cosiddetta sindrome dell’arto fantasma. La scomparsa di una persona cara, parte integrante del nostro essere, che una volta svanita sembra ancora assurgere al suo ruolo di supporto, completamento.  

Baumgartner non è tanto un romanzo sulla vecchiaia quanto sulla memoria. Così il ricordo diventa il vero motore nostalgico verso un vissuto che a tratti sembra non più corrispondere alle nostre esistenze. Auster restituisce alla memoria uno spazio fisico, compatto, circoscritto nella pagina. Permette al protagonista di dilungarsi in aneddoti familiari, piccole scintille implose da momenti di inerzia sviluppatisi negli anni. 

Il lettore è accompagnato nella rêverie di Baumgartner, ma senza che si perda mai il filo del discorso. A differenza de L’uomo nell’Olocene di Max Frisch, la memoria non è frammentaria e non si riverbera in un discorso sovraumano ma rimane ancorata alla giornata. In questo Paul Auster si rivela un autore – più che in altri suoi libri – capace di descrivere la necessaria urgenza di comprendere la vita senza sofismi:

Un tempo la chiamavano senilità. Ora il termine è demenza ma, gira e rigira, Baumgartner sa che, se pure farà quella fine, gli manca ancora un bel po’ di strada per arrivarci. Riesce ancora a ragionare, e siccome riesce a ragionare, riesce ancora a scrivere, e anche se adesso ci mette un po’ di più a finire le frasi, il risultato è più o meno lo stesso. 

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Svelare le carte

La perdita della memoria a breve termine sembra diventare un passaggio obbligato. Un altro appostamento perso nella battaglia che porta al declino. Eppure il professore non desiste e con i suoi esercizi quotidiani cerca di non collassare e arrendersi all’avanzare del tempo.

Quello che pensa possa essere il suo ultimo libro diventa un appuntamento costante; poi Paul Auster, come anticipato, ne segue i pensieri. Come sempre l’autore imbastisce un gioco, un patto tacito con il proprio lettore: bisogna seguire la voce dello scrittore, senza retorica, e rispettare i giochi narrativi a cui veniamo sottoposti. Ma qui non vi sono più specchi deformanti o storie intrecciate o celate quasi si trovassero in perpetue scatole cinesi, qui vi è solo il ricordo che tutto contorce. Non vi sono più sperimentalismi conclamati, ma solo una sincera volontà di apparire nell’intimo

Svelare le carte nascoste da tempo, dunque, e far comprendere che oltre lo scrittore vi è innanzitutto l’uomo. la volontà di vivere senza artifici e fuggire, seppur ancora solo per qualche generazione, all’oblio. 

Baumgartner raccoglie dopo la scomparsa della moglie le poesie mai pubblicate e le confeziona in un libro di discreto successo. E poi ancora, quando una studentessa di un amico in comune rileva la volontà di compiere degli studi sulle carte inedite di Anna Blume per Seymour diventa quasi un segno del destino.

Anna era al suo fianco, hanno camminato insieme e chiacchierato dal principio alla fine, ascoltandosi e parlandosi mentre entravano e uscivano dalle stanze della memoria, rivisitando centinaia di piccole e grandi cose vissute in quei quarant’anni. Inutile dire che Anna non era lì in carne e ossa, ma leggendo le sue lettere e i suoi manoscritti per la prima volta da Dio sa quanto, Baumgartner ha ritrovato la sua voce, e studiando le innumerevoli foto che lui e altri le hanno scattato nel corso della sua vita, ha ritrovato il suo corpo. Non il suo vero corpo, è logico, né la sua vera voce – ma quasi. 

Vita e immaginazione

Come anticipato, si tratta di un libro di Paul Auster che nel contenuto ricorda nettamente più i saggi autobiografici come Sbarcare il lunario e soprattutto L’invenzione della solitudine.

Il protagonista di Baumgartner (acquista) si aggiunge all’elenco degli alter ego del suo autore, ma rispetto agli altri rimane più appartato, meditabondo. Un vecchio però che attira l’attenzione dello spettatore, quasi abbandonato sulla scena quasi si trattasse di un personaggio di Beckett: infatti in lui vi è una Wunderkammer, in cui perdersi stupefatti. E questo libro ne è la prova: il connubio fra vita e immaginazione.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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