Kawamura Genki con Un canto divino affronta la tematica del lutto in maniera estremamente naturale e intensa, grazie anche all’ambientazione e alle caratteristiche particolari della famiglia Dan’no che vive la tragedia. Colpita dalla morte improvvisa e violenta del figlio più piccolo, causata da un’insensata strage, la famiglia protagonista deve, infatti, cercare di andare avanti e proteggere il ricordo ma allo stesso tempo il futuro. Kawamura Genki sceglie di raccontare non la morte in sé, appena accennata con un incipit che fa quasi pensare a un giallo, ma ciò che viene dopo: la lunga e incerta sopravvivenza al dolore.
«Un canto divino»: reagire di fronte a una perdita
All’interno del romanzo le varie reazioni dei personaggi si pongono in opposizione tra concretezza e spiritualità: i Dan’no per vivere gestiscono un negozio di uccellini, figure dalle quali si può partire per comprendere molto della vicenda e anche molto di loro. Chiaramente, ne rappresentano il lavoro concreto, ma sono anche metafora di quella spiritualità dalla quale si lascia attrarre per esempio la madre, che si avvicina a un coro religioso. Per noi amanti della letteratura italiana, l’uccellino, anzi, la rondine per essere precisi è diventata ben presto simbolo del lutto: l’ha resa tale il grande poeta Giovanni Pascoli, che nella sua X Agosto affida alla rondine la metafora del padre la cui vita è stata ingiustamente spezzata.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
All’interno di questa ormai iconica poesia risiede tutto il legame con l’infanzia e con il nido che caratterizza la vita e quindi la poetica pascoliana. Quella stessa natura, così crudele da spezzare una vita, diventa il simbolo della tristezza, in quanto le stelle cadenti della notte di San Lorenzo sono come le lacrime del cielo per la vita spezzata. In Un canto divino, questo lutto è anche peggiore, in quanto riguarda non un padre, la cui assenza rende i “rondinini” orfani e in attesa vana, ma un figlio piccolo, ancora più indifeso, più giovane. Lo smarrimento rappresentato qui non è dunque personale di un figlio, bensì totale di un’intera famiglia che va avanti come può. Anche grazie a quel negozio così particolare e al legame con quegli uccelli il cui canto è, del resto, divino.
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La gioventù non si rassegna alla paralisi
Nella prima parte del romanzo tutto sembra paralizzato in quel preciso momento descritto all’inizio: ognuno fugge come può dall’insensata tragedia che l’ha colpito, a eccezione di Kanon, la figlia adolescente, fragile eppure intuitiva, nella mancanza di equilibrio che caratterizza la sua stessa età e fase non ha risposte per gli altri, ma cerca una riconciliazione. Rispetto ad altri romanzi dello stesso autore, come Se i gatti scomparissero dal mondo, non c’è leggerezza, ma profonda cupezza. In Un canto divino l’assenza non è una metafora, e perdere qualcosa, farla scomparire, non è una scelta, bensì un obbligo fatale. Le domande sono quelle di sempre: come sopravviviamo al dolore? Come non ci paralizziamo di fronte a qualcosa che è puramente ingiusta? Come racconta C.S. Lewis nel suo Diario di un dolore, dove l’autore tratta del terribile lutto della perdita della moglie, a poco servono le classiche frasi che tutti dicono:
Queste sono cose che tutti superano. Ma sì, me la caverò. Ci si vergogna di ascoltare questa voce, ma per un po’ gli argomenti sembrano persuasivi. Poi, d’un tratto, la stilettata rovente di un ricordo, e tutto quel “buonsenso” svanisce, come una formica nella bocca di una fornace.
Kawamura, infatti, non le utilizza, ma racconta il modo che ognuno ha di affrontare quel dolore, di fronteggiarlo comprendendo forse attraverso quella stessa assenza il valore di quello che rimane. Rinunciare a quella paralisi di sofferenza significa cercare aiuto: altri genitori, per esempio, nella loro vita hanno perso un figlio, e per questo il padre protagonista si affida alla Società del Vento, un’associazione di familiari vittime di omicidio. Troviamo tutto, quindi: la ricerca del gruppo, del sostegno altrui, l’isolamento, la fragilità, tutto ciò che gli esseri umani fanno e cercano quando si trovano alla deriva.
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Uno sguardo saldo sul reale
Un elemento che rende questo romanzo molto originale è il fatto che sfugga a cliché che da sempre attribuiamo alla letteratura nipponica, soprattutto quello del reale affiancato al surreale. In Un canto divino (acquista) la spiritualità non serve a costruire elementi onirici e non esiste un vero e proprio realismo magico; condivide comunque con altri autori dai toni onirici, come Murakami Haruki, la centralità del lutto come momento che disgrega l’identità. Kawamura Genki non vuole filtrare il dolore attraverso il sogno o il surreale, e anche il simbolico mantiene uno sguardo saldo sul reale. Le fughe rappresentate non sono allegoriche o oniriche, i canti divini sono canti veri, il dolore è un dolore quotidiano, nudo. Non esiste nella tragedia nemmeno la ricerca di una qualche forma di bellezza o di “estetizzazione” del dolore, cosa che invece fa per esempio Yukio Mishima.
La morte non ha nulla di sublime: è pura violenza e insensatezza, ancorata alla vita quotidiana che è vuota eppure concreta, perché nel vuoto può esistere pienezza, nella tragedia un filo di speranza. Nel silenzio della morte il canto divino della vita.
Il cinguettio degli uccelli invisibili continua a riecheggiare nel cielo.
Sembra a tutti gli effetti un canto divino.
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