Quando prendersi cura diventa una prigione

«L'estate che ho ucciso mio nonno» di Giulia Lombezzi

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«L'estate che ho ucciso mio nonno» di Giulia Lombezzi

A quattro anni di distanza dal suo esordio La sostanza instabile (Giulio Perrone Editore, 2021), Giulia Lombezzi torna in libreria con L’estate che ho ucciso mio nonno, stavolta per i tipi di Bollati Boringhieri. Un romanzo che sulla quarta di copertina Nicoletta Verna definisce «pieno di ironia e di ruvida dolcezza, una storia che diverte e commuove fino all’ultima riga» e che, a lettura conclusa, si dimostra perfettamente all’altezza di questa presentazione.

«L’estate che ho ucciso mio nonno»: la trama

La trama si dipana nella rovente estate del 2022, con una novità che incombe nella vita della protagonista, la sedicenne Alice: l’arrivo del dispotico nonno materno Andrea nella casa che la ragazzina divide con la madre Marta. L’anziano, infatti, non è più autosufficiente e per la sua unica figlia non sembra esserci altra soluzione che prendersene cura in prima persona, aprendogli le porte di casa.

La presenza del nonno ingloba pian piano tutto quello che c’era prima, obbligando Marta a ridefinire tutta la propria vita in funzione dell’assistenza al padre. È l’ordine delle cose, come per un debito di sangue stipulato alla nascita: un giorno i figli dovranno farsi carico dei genitori, anche quando da questi non hanno mai ricevuto amore. Una dinamica che Alice non comprende. Vede solo la madre annullarsi ogni giorno di più per il nonno, che tiene in scacco un’intera famiglia. Nella sua testa di adolescente, il nonno è il drago cattivo che tiene prigioniera la principessa; Alice è il cavaliere che dovrà salvarla. Ed è nel mezzo di queste fantasticherie che le passa per la testa un pensiero indicibile: se il nonno morisse, la mamma potrebbe finalmente riavere indietro la sua vita?

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Chi dà assistenza a chi dà assistenza?

Non faremo spoiler sullo sviluppo di questa storia. Possiamo però dire che L’estate che ho ucciso mio nonno ruota intorno a un tema quantomai d’attualità in una società come la nostra, in cui l’età media si fa sempre più alta e serve a un certo punto che qualcuno si faccia carico degli anziani. L’autrice punta il dito su una questione collaterale, ma non meno importante: chi si farà carico di aiutare e sostenere in concreto i cosiddetti caregiver? O meglio, le caregiver, visto che, dati alla mano, nella stragrande maggioranza dei casi sono donne le persone che si occupano dei parenti anziani o malati, arrivando a mettere in pausa la propria vita. Dov’è il confine tra la libera scelta e il retaggio culturale che vuole le donne perfetti angeli del focolare, pronte a prendersi cura degli altri sempre e comunque?

Giulia Lombezzi ci invita a non scivolare nel moralismo facile di chi guarda le situazioni da lontano, sputando sentenze e idealizzando un compito di cura che non vive in prima persona. Molto significativo è, in questo senso, un passaggio in cui Alice litiga con la sorella maggiore Federica, che vive in Spagna e torna dalla madre solo sporadicamente. Dopo un disastroso susseguirsi di badanti, Marta ha preso la decisione di far entrare nonno Andrea in una struttura; Alice, che in questa scelta vede un modo per togliere il gravame della cura dalle spalle della madre, è favorevole, mentre Federica si lancia in un discorso che farà precipitare la madre in ulteriori sensi di colpa.

«Magari facciamo riposare mamma per una sera, che dici?» ribatto. […] «Magari le ricordiamo che ha una vita anche oltre Nonno, non so, tipo giusto per due o tre ore?» […]
«Magari eviti questo tono, Aly, sto parlando con mamma e non è necessario che tu…» Il tono conciliante di chi è abituato a gestire i conflitti.
Ah sì? «Tu vivi qui?» domando, sono in piedi, la fronteggio dal mio metro e cinquantasette. […] Come Hulk, mi coloro di verde e mi gonfio. «Gliel’hai lavato mai, il culo?»
«Alice!» tutti e tre, in coro.
L’ho detto veramente? Sì, e mi è pure piaciuto dirlo, quindi lo ridico. «A Nonno gliel’hai mai lavato, tu, il culo?»
Sento brace sotto le guance. «Dovresti provare, sai, è un’esperienza. Ti fa mettere le cose in prospettiva, come dici tu».
«Aly…»
«Ma tu non vivi qui, e non sai un cazzo, e non ci sei mai, quindi taci». […]
«Ok, c’è qualcosa che evidentemente stai vivendo male e di questo parleremo» media mia sorella, «ma il punto è che Nonno dovrebbe stare con voi, perché non è da solo, voi ci siete e… e non è giusto che un fragile venga lasciato ai margini, è l’espressione di un sistema fallace, scusa mamy, ma la penso così» prorompe l’idiota sull’orlo delle lacrime. […]
Mamma è trafitta. Qualcosa dentro di lei cede. Come al solito.

Estate dolce e crudele

Come è facile intuire dal titolo del romanzo, è l’estate a fare da sfondo alle vicende narrate. Sono in realtà due quelle che si snodano nel libro: quella del presente, con Alice che vede la madre annullarsi in nome del suo ruolo di caregiver del nonno, e una relativa all’adolescenza di Marta, che la giovane protagonista riesce a ricostruire dai racconti di Manuela, una cugina della madre. Per entrambe, l’estate è una stagione al tempo stesso dolce e crudele – e in questo, a ben vedere, è una metafora dell’adolescenza, periodo in cui si inizia a scoprire sé stessi e il mondo che ci circonda, spesso con uno strappo doloroso da ciò che rappresentava l’infanzia.

L’adolescenza è anche sinonimo di scoperta del proprio corpo e del desiderio. È così anche per Alice, con tentativi più o meno goffi di approccio nei confronti degli uomini che nascono esclusivamente dalla necessità di appagare la propria pulsione sessuale. In questo, la protagonista de L’estate che ho ucciso mio nonno si discosta dall’idea più tradizionale della ragazzina in preda ai primi batticuori. Non si innamora di nessuno, forse perché nella sua vita il sodalizio e la complicità trovano per il momento già ampio spazio nell’amicizia con Angiu e Cane. Un rapporto viscerale e totalizzante, come lo sono solo le amicizie dell’adolescenza, e per questo spesso non compreso fino in fondo dagli adulti che circondano Alice.

Tra tutte le stagioni, l’estate è inoltre quella in cui i corpi, con l’innalzamento delle temperature, diventano più esposti allo sguardo altrui (e potenzialmente vulnerabili). È così anche per quelli di Marta e Alice, che somatizzano la convivenza forzata con nonno Andrea in due modi agli antipodi: mentre Marta smette di mangiare e diventa il fantasma di quella che era un tempo, Alice sfoga il suo disagio nel cibo, arrivando quasi a deformarsi. Il suo nuovo, enorme corpo si fa così per lei una sorta di corazza dal mondo esterno. Quella de L’estate che ho ucciso mio nonno è una storia tutta scandita da ciò che accade ai corpi dei personaggi, fino alla potentissima ed evocativa scena finale.

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Una pluralità di famiglie

Colpisce, ne L’estate che ho ucciso mio nonno, la pluralità di famiglie che Giulia Lombezzi mette in scena. Da una parte abbiamo un perfetto modello di famiglia patriarcale, quella in cui è cresciuta Marta, con il padre a fare da capofamiglia indiscusso, davanti a cui lei e la madre, Teresa, hanno sempre dovuto piegare la testa (anche se vogliamo mettervi la pulce nell’orecchio – pur senza fare spoiler – su un’insubordinazione di Teresa al marito in apparenza piccola ma che si rivelerà cruciale a distanza di decenni).

Dall’altra troviamo i genitori di Alice, Marta e Fabrizio, divorziati dopo molti anni di matrimonio. Incarnano un modello molto più positivo, che meriterebbe di trovare più spesso rappresentazione nei libri: due persone per cui l’amore di coppia è finito, ma non il rispetto reciproco. Fabrizio continua a preoccuparsi per Marta, benché non sia più sua moglie, provando a essere presente e offrirle un aiuto.

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Nel romanzo, inoltre, il concetto di famiglia si amplia fino a includere quello di trauma intergenerazionale: Alice si rende conto che in ogni famiglia può annidarsi una storia di dolore destinata a tramandarsi dai genitori ai figli finché qualcuno non prova a spezzare la catena. E, man mano che scopre la storia delle donne che l’hanno preceduta, sente montare una certezza: sarà lei a spezzare quella catena e rimettere tutto in discussione. Con tutta la tenera ingenuità, la determinazione e l’idealismo dei suoi sedici anni.

«L’estate che ho ucciso mio nonno»: dalla coralità alla prima persona

Con L’estate che ho ucciso mio nonno (acquista), l’autrice costruisce una storia dalla struttura narrativa molto diversa da quella della Sostanza instabile. Infatti, mentre il romanzo d’esordio era costruito a cerchi concentrici, con l’alternarsi dei punti di vista di diversi personaggi, in questo nuovo libro quasi tutto ci viene narrato dallo sguardo di Alice, in prima persona (eccezion fatta per i capitoli, scritti in terza persona, che ripercorrono l’adolescenza di Marta). Giulia Lombezzi dimostra così la stessa dimestichezza sia nel dare voce in modo credibile a più personaggi che nel calarsi totalmente nei panni di uno solo, confermandosi un’ottima penna della nuova narrativa italiana.

Molto riconoscibile è la voce di Alice, ricchissima di espressioni tipiche del gergo della Generazione Z (che, a detta della stessa autrice, tra qualche anno sembreranno desuete ai nuovi adolescenti, tanto sono rapidi ascesa e declino dei gerghi giovanili). Appassionata di dramedy, da sempre Giulia Lombezzi ha desiderato diventare una scrittrice in grado sia di fare ridere che di fare paura. Con questo suo secondo romanzo possiamo dire che è riuscita alla perfezione nel suo intento, alternando sapientemente la vena comica dei capitoli narrati in prima persona da Alice ai toni molto più cupi dei capitoli in terza persona sulla giovinezza di Marta.

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Francesca Cerutti

Classe 1997, laureata in Lingue per l’impresa e specializzata in Traduzione. Caporedattrice di Magma Magazine, sempre alla ricerca di storie che meritino di essere raccontate. Dopo aver esordito nel 2020 con il romanzo «Noi quattro nel mondo» (bookabook), ha pubblicato nel 2023 la raccolta di racconti «Pretendi un amore che non pretende niente» (AUGH! Edizioni).

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