Tre inediti di Gerardo Masuccio

Alberto Paolo Palumbo commenta le opere del giovane poeta e editore

11 minuti di lettura
Gerardo Masuccio

I.

L’inverno va distraendosi: 
ciò che si doveva 
non è stato, ancora. 
A rivelarlo – e coniuga al passato  
ogni tua attesa – 
il lembo di asfalto 
tra la loggia e il pino, 
asta di un abaco che tiene 
di luglio in luglio 
il conto dei tuoi morti. 
Dico: “Sarà. La pioggia 
concilia ogni resa”. 
E invece il freddo è l’intervallo 
tra un vuoto e l’altro. 
Menti e mi credi, ma dov’era l’uomo 
in me ora resta 
un consuntivo di assenze.   

II.

Verbi al futuro, è prepotente
la sua voce lieve
per chi, come me, non si racchiude
che in frammenti imprecisi di adesso.
Per chi si difende
di qua dal perimetro di un forse.

Un uomo. Mi passa accanto
– speranza inespressa –
e parla a uno schermo, altrove.
Inosservato, rido
con la forza
del raggio che sorge all’orizzonte
di un deserto.
Non lo conosco. Nitido
un istante e presto opaco,
il volto gli si perde nell’assenza.

L’ho visto con gli occhi di un altro
e – sì, lo ignora –
è l’ultimo legame che ho col mondo.

III.

Tutto è già scritto, e se la vita fosse
la falsariga del mio verso vano,
rinnegherei quel che presto mi scosse:

la rima, il foglio bianco in cui la mano
si innerva perché non la vinca l’onta
di riscoprirsi vacua, un sempre umano.

Tant’è, non resta in fondo che l’impronta
di ciò che non è stato, quell’angusto
confine tra due vuoti, in cui tramonta

ciò che non sorse, che mi fece ingiusto
contra me giusto: il verbo che ormai cova
questa mia morte e, ancora eterno, il gusto

di chi l’ha già provata e la riprova.
Non una, come ai saggi, e più sicura
ma quasi certa e, in ogni verso, nuova.

Esistere è un consuntivo di assenze: il confine fra essenza e assenza secondo Gerardo Masuccio

di Alberto Paolo Palumbo

Non ha senso
e ne dà. Come un giglio
che gridi a chi passa,
da un ciglio di via:
“Fin qui visse un uomo”

Questa è la poesia che dà al nome alla raccolta poetica Fin qui visse un uomo (Interno Poesia, 2020) di Gerardo Masuccio, poeta e direttore editoriale di Utopia Editore, che con questa sua prima silloge si è aggiudicato il Premio Camaiore Opera Prima e il Premio San Domenichino. Il componimento citato, così come tutta la raccolta di Masuccio, gioca molto con il concetto di confine, inteso come “limine” montaliano, che l’uomo può superare con la consapevolezza che esiste nell’attimo, anzi, in una somma di attimi e di assenze.

A questo concetto di confine fra l’esistere e l’assenza si rifanno i tre inediti proposti in questo articolo, che proseguono la sua riflessione sulla precarietà della vita e sul superamento della soglia tra il “conservare” e il “ripudiare” l’essenza dell’uomo. Dopotutto, come scrive sempre Masuccio nella sua prima raccolta:

Quel verbo indifeso
– l’enigma di ciò che resiste
disperso nel nulla –
è nient’altro che me, è ogni uomo
che si ostina a restare e non è.

Tre inediti di Gerardo Masuccio: l’urgenza del tempo

I tre inediti di Gerardo Masuccio sono componimenti lunghi, di cui il terzo è una serie di cinque terzine dantesche. A parte il terzo, gli altri due componimenti sono scritti usando il verso libero, la cui lunghezza tende a essere breve, rivelando l’urgenza del tempo che scorre, in cui ogni attesa si tramuta subito in un momento passato, dove la morte è «non una, come ai saggi, e più sicura/ ma quasi certa e, in ogni verso, nuova».

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Parlando di tempo passato, la cosa che colpisce è come Masuccio riesca a declinare il vuoto e l’attesa usando un linguaggio e figure che rientrano nel campo semantico della grammatica, della letteratura e della matematica. Espressioni come «coniuga al passato», «un abaco», «tiene il conto», «consuntivo», «rima» e «verbi al futuro» sono elementi fondamentali al fine di evidenziare il superamento del confine fra il vuoto di ieri e quello che verrà, per stabilire la presenza dell’essenza umana, che si configura come somma di momenti passati.

Come in Fin qui visse un uomo, anche in questi tre inediti troviamo il confronto fra il “conservare” (presente nelle parole “resta”, “si difende” e “legame”) e il “ripudiare” (indicato dalle parole “rinnegherei” e “perde”). Anche qui, dunque, resta la tensione fra la conservazione della vita che fu e il suo ripudio per avvicinarsi alla vita che sarà, la consapevolezza di essere, come scrive Masuccio nella sua opera prima, «ogni uomo/ che si ostina a restare e non è» poiché «siamo frammenti d’eterno/ nel fiato di un lampo».

Coniugare un’attesa al passato in esistenza presente

Queste premesse stilistiche e linguistiche sono fondamentali, poiché è proprio a livello semantico che Gerardo Masuccio opera: creando una lingua e delle immagini che traducono l’attesa, che diventa presto una futura assenza, in presenza ed essenza.

La prima immagine – quella del primo componimento – è il lembo di asfalto, «asta di un abaco che tiene/ di luglio in luglio/ il conto dei tuoi morti». Questa è una figura liminale, espressione di un inverno che di luglio in luglio ci comunica che tutto è attesa «tra un vuoto e l’altro». Le morti si sommano, ogni attesa è passata, e «dov’era l’uomo/ in me ora resta/ un consuntivo di assenze».

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L’uomo diventa, dunque, la somma delle assenze e di ciò che eravamo nell’attesa passata. Qui entra la seconda immagine, quella del secondo inedito: l’uomo che passa accanto all’io lirico, la sua «speranza inespressa» che volge lo sguardo a uno schermo. Un’immagine a cui il lettore più attento è abituato, perché già vista in Forse un mattino andando in un’aria di vetro di Eugenio Montale, componimento che si può leggere nella raccolta Ossi di seppia. Come l’uomo montaliano, anche l’io di Masuccio guarda «inosservato» e ride, tenendo per sé il segreto: tutti noi siamo «frammenti imprecisi di adesso», il cui «volto gli si perde nell’assenza», e «l’unico legame che ho col mondo» è lo sguardo di ciò che diventerà assenza, ma che si rinnova in un’altra presenza.

Si approda, allora, all’ultima immagine, corrispondente alla terza poesia: l’«angusto confine tra due vuoti». Esistere, per l’io lirico, non significa rinnegare «ciò che non sorse», ma percorrere «l’impronta di ciò che non è stato». L’io lirico matura la consapevolezza che ogni attimo presente diventa assenza, una morte che in ogni suo verso si rinnova, perché il «sempre umano» è vagare fra due vuoti: quella lasciata da un prima e quella che il presente lascerà.

Con questi tre inediti, Gerardo Masuccio prosegue con sguardo sincero e onesto l’indagine iniziata con Fin qui visse un uomo sul mistero più grande di tutti: quello della vita e dell’essere umano. Esiste significa vivere nella consapevolezza che ogni attimo presente si fa passato, si fa morte. L’essenza umana, allora, diventa la somma di tutte le esperienze passate che si fanno presenti nei frammenti della nostra vita presente.

L’autore

Gerardo Masuccio (1991) è originario di Battipaglia, in provincia di Salerno, ma è cresciuto a Olevano sul Tusciano. Dopo gli studi classici a Eboli, nel 2010 si è trasferito a Milano, dove all’Università Bocconi ha conseguito due lauree, in Giurisprudenza e in Economia, con tesi sul diritto d’autore e sull’editoria libraria. Dal 2017 lavora per Bompiani, dove dal 2019 è curatore della collana CapoVersi. In ambito editoriale, oltre a essere redattore della rivista letteraria «Atelier», nel 2020 ha fondato la casa editrice Utopia Editore, di cui è anche direttore editoriale. Fin qui visse un uomo (Interno Poesia 2020) è la sua opera prima (acquista), con prefazione della poetessa Giovanna Rosadini e vincitore del Premio Camaiore Opera Prima 2020 e del Premio San Domenichino 2020 per la sezione Libro Edito Poesia.

Illustrazione di Nicola Bersi
© Riproduzione riservata

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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