«Thanatofobia», il senso della morte

Una silloge poetica che mette in relazione la paura della morte con l'esigenza di diventare vigili depositari della memoria

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thanatofobia

Thanatofobia è l’ultimo libro di Guglielmo Aprile, pubblicato questa primavera da Edizioni Progetto Cultura. Come già suggerisce il titolo, l’autore si propone di analizzare la paura della morte. Divisa in quattro sezioni, la silloge ha il pregio di sondare il senso della fine, sia nell’ottica privata sia in quella collettiva. In questa circostanza Aprile, nonostante riconosca l’essenza intima della morte, decide in maniera originale di affrontare il tema partendo da una psicosi collettiva.

In Thanatofobia si configura così uno scenario quasi apocalittico, contraddistinto da una natura famigliare e allo stesso tempo estranea:

Avverto nel corso degli alberi
come una stonatura, a volte: un brivido
trafigge il vento
a metà del suo arco.

Orientarsi nella morfologia

I componimenti formano delle scene suggestive – a volte non prive di ironia – che però, se viste nel loro complesso, formano una specifica sequenza. In questo panorama l’io lirico, in ostaggio dell’imprevedibile morte, muove i propri passi: la mappa urbana è desolante e tutto presagisce l’entropia («epicentro dei sismi stellari / embrione delle comete / e salasso delle maree»). Compito del poeta rimane quello di orientarsi nella complessa morfologia di impressioni contradditorie:

Qualcuno, a poca distanza, mi segue
mentre mi addentro in questo labirinto;
non conosco il suo volto
non so cosa cerchi da me, ma a volte la sua ombra
si allunga sui miei passi

D’altronde nella raccolta la morte assume le più svariate fattezze in momenti disparati, proprio ad indicarne la sua mutevole forma pronta ad aggredire la preda senza preavviso.

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Tuttavia, il terrore si manifesta in tutta la sua potenza travolgendo lo spettatore inerte. Ed è proprio questa sensazione di impotenza innanzi all’incontenibile natura che ispira alcune fra le riflessioni più sentite in Thanatofobia (acquista). Ad esempio in Maelstrom la morte dell’individuo viene associata al «sonno dei grandi oceani» dove «buoio e silenzio, come un assedio / da ogni lato, non avranno mai fine».

Il soggetto, dunque, sommerso negli elementi a tal punto da identificarsi. Non sono perciò fuori luogo i versi di Evgenij Evtušenko quando scrive: «È la legge di un gioco spietato. / Non sono uomini che muoiono, ma mondi».

«Thanatofobia»: poesia in scenari distopici

Con un andamento giornalistico il poeta parte da considerazioni personali grazie a fatti apparentemente irrilevanti che, però, nello scenario distopico vengono caricati di significato. Tutto diviene così premonitore:

L’ingresso della galleria inghiotte
il treno, i passeggeri
ignorano cos’è che troveranno
sbucati all’altra uscita.

Una sensazione di irrealtà che genere un senso di claustrofobia verso la vita. L’incapacità di godersi il presente proprio perché arginato dalla possibilità più o meno prossima della morte. Il cosmo insensibile padroneggia e ignora i dolori mortali. Come viene detto in Imperturbabile, nemmeno le stelle sanno cosa sia la pietà tanto da non essere scalfite nel loro «intarsio geometrico, gelido» dai nostri segnali disperati.

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L’uomo che per quanto si identifichi o meno nella natura nulla può contro:

Il fazzoletto azzurro che ricopre
il cielo in ogni angolo, nasconde
il boato, il burrone, la caduta
che attraversata l’intera galassia
ancora non avrà raggiunto il fondo.

Oppure per citare i versi di Mario Luzi: «Né memoria, né immagine, né sogno. / Il volto dell’assente era un spera specchiata dalla prima opaca stella».

La comprensione della fine

Nonostante anche la morte travolga ogni cosa, compreso il ricordo umano destinato a disperdersi, l’uomo ha la capacità e il dovere di persistere. Infatti, paradossalmente, è la stessa paura della fine a renderci forse ancora più vigili depositari delle nostre memorie. Il Premio Nobel per la Letteratura Louise Glück scrive:

La natura, si vede, non è come noi;
non ha un deposito di memorie.
[Il campo] viene ammazzato, viene bruciato,
e un anno dopo è di nuovo vivo
come se non fosse accaduto niente di insolito.

E invece, appunto, nell’animo umano si assesta. La permanenza della memoria e dell’esperienza diviene così un valido modo se non per contrastare la morte, almeno per comprenderla.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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