Dura nella mia bocca la tua voce,
nei tuoi piedi ha radice la mia carne,
i nostri sonni, i nostri odori sono d’uno.
Questo è dunque l’amore, e mi spaventa.
Gesualdo Bufalino, da L’amaro miele
Dall’altra stanza mi giunge la sua voce, assieme a uno sferragliare di chiavi e un ticchettio di scarpe.
«Esci?».
«No, oggi no. Non ne ho voglia».
«Neanche più tardi?».
«No, te l’ho detto. Nemmeno più tardi».
«Ok, allora scappo. A dopo, ciao».
«… Ciao».
La mia ragazza. Mi sprona sempre a fare qualcosa, anche quando sono poco incline a farlo. È più grande di me di qualche anno, in fondo mi piacciono le ragazze più grandi, danno quel senso di protezione che consente di… respirare meglio, ecco tutto. Sì, lo so, l’età che ho mi dovrebbe portare a ragionare diversamente, ma cosa ci posso fare? L’amore quando ti prende è come un mal di testa, e per farlo passare ti ci vuole tempo, anche se preferisci rimanere sotto le coperte a riposare e stai a distanza di sicurezza dalla banalità di tutti i giorni. È come la febbre: dà un sacco di brividi e hai voglia di qualcosa di caldo, di corroborante, e se con la febbre cerchi una tisana e una coperta, con l’amore cerchi l’abbraccio di una persona e il suo corpo da stringere forte. Tuttavia anche in questo idillio di amore, che in fondo è appunto una malattia, ci sono i problemi, le incomprensioni, le difficoltà.
Per esempio con Lei. Uso la lettera maiuscola perché è al momento la persona più importante del mondo, per me. Domani forse potrei dire lo era o non lo è mai stata, adesso però è. Anche se iniziano a infiltrarsi i dubbi, i se, i però, le prime scheggiature, i primi segni del tempo. Come è normale che sia, è così per tutti. La nostra relazione dura da abbastanza tempo per poterci ricordare come tutto incominciò. Un po’ per caso, un po’ per desiderio, un’uscita non voluta, un incontro del destino. Il capirsi al volo, il completarsi i pensieri e le frasi, gli stessi gusti e i caratteri complementari. Dopo i primi dubbi, le prime certezze. E quelle emozioni che scuotono il corpo quando ci abbracciamo. La voglia pazza di Lei quando ci baciammo per la prima volta, lontano da occhi indiscreti, poi davanti a tutto il mondo, perché l’amore ha bisogno anche di esternazione, di certezze, di verità. È questa la nostra guerra senza sfoderare armi, gli unici artigli sono le unghie che sfiorano la carne quando i nostri corpi si fanno uno. Il ritorno alle origini, allo stato animale, al bisogno infantile di accudimento e del prendersi cura l’una dell’altra.
Mi manca quando è in casa ma non è vicina a me. Ne avverto il bisogno come l’aria nei polmoni, come il sole sulla pelle. Ma come il sole che se troppo, scotta, come l’aria che se viziata, asfissia, ogni tanto la preferisco lontana quando mi si avvinghia addosso con i suoi pensieri assurdi. Poi, però, divento un coacervo di contraddizioni, come la notte e il giorno nella stessa stanza. Allora la cerco, non appena è uscita, la evito quando sta per tornare. Divento una bambina piccola che di fronte a tante opzioni fatica a decidersi: è l’eccesso di felicità, anzi: la paura di essere troppo felice. Sono incapace di scegliere adeguatamente tra bisogni e desideri, tra realtà e fantasia, tra prospettiva e accaduto. Tra Lei e Me. La voglio e non la voglio, come si potrebbe dire sfogliando le margherite. Poi mi si avvicina, parliamo di quattro cazzate, usciamo fuori e tutto torna a essere normale. Se si può parlare di normalità, quando il cuore ti batte a mille e ogni pensiero vortica attorno a Lei, lampada per la mia mente da falena ubriaca.
Quel malessere che mi porto dentro mi passerà, lo so. Adesso preferisco così, quelle attenzioni non richieste, quelle soddisfazioni infantili. Adesso. E poi? Domani sarà un altro giorno. Oggi non sono uscita perché ho detto che avevo le mie cose, che non mi sentivo troppo in forma. Mi stufo della mia febbre e delle mie bugie. Alla fine, perché no?, esco, anche se ho detto una mezza verità. Ho voglia di fare due passi, lontano da una casa che mi sta stretta e una relazione che fatico a gestire appieno, certe volte. Capirà quando torna. E se non capirà, le spiegherò tutto io. Esco, scappo, vorrei correre via ma basta anche fare quattro passi intorno all’isolato, il rumore del traffico e il vociare delle comari in sottofondo. Magari quando rientro in casa metto su un disco, così almeno si stupirà di quel silenzio evaporato via.
Alla fine, allungo i miei passi e i miei orari facendomi vagare a lungo senza meta. Alla fine torno a casa, da Lei, la mia Stella Polare. La strada la conosco, le chiavi ce le ho. Quando rientro, è seduta sul divano. È tornata, è ancora lì. È sempre Lei. Mi guarda strana, scuote la testa, nel labiale leggo un “sei sempre la solita”. Continua a fissarmi, sorride.
«Avevi detto che non volevi uscire».
«Ho cambiato idea. Sai come sono fatta».
Si avvicina, mi tasta la fronte. «Scotti! Hai per caso la febbre?».
«Chi lo sa! Abbracciami».
«Certo che ti abbraccio. Cosa è successo, stella?».
«Niente. Solo che… Ogni tanto sono un po’… strana».
Sorride ancora. «È proprio questo di te che mi piace, e lo sai».
«Già». La stringo forte a me.
È la prima volta che provo una ridda di emozioni così intense e devo ammettere che la cosa mi spaventa. Ho paura di non riuscire a gestire le fragilità mie e della nostra storia, ho il timore di non farcela, di perdere per sempre una persona a cui voglio un bene dell’anima. E ho il terrore di ammettere tutto questo, di dirglielo, anche se per questa febbricola d’amore l’unica cura è la ragazza che adesso sto abbracciando, con tutte le forze. Mi ci aggrappo per non lasciarla scappare via, come fa lo scalatore con la sua montagna, per non esser risucchiato dallo strapiombo.
Racconto di Luca Cassarini
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