Quando impariamo ad amare? Nonostante sia un sentimento innato, non è così scontato amare e essere amati. Allo stesso modo in più fasi della vita si può sperimentare la condizione di non essere amati o, peggio, di non riuscire ad amare. Claudio Prizio, protagonista del romanzo Vite mie di Yari Selvetella (Mondadori, 2023), si trova proprio in quest’ultima situazione.
Non so più amare, chiedo perdono a tutti. Prima provo a pensarlo, poi a dirlo sottovoce, poi per convincermene aggiungo il pronome: io non so, io non so più amare.
Quando la quotidianità s’inceppa
Il passato di Claudio torna a tormentarlo nella quotidianità della sua famiglia allargata in via del Colosseo, a Roma. La sua non è una famiglia convenzionale: convive con Agata, con la quale ha avuto la figlia Micol, Nico è il figlio della ex compagna G, morta di leucemia. Carlo e Tiziano sono gli altri due figli della donna avuti da precedenti rapporti e di cui ha continuato a prendersi cura.
I gesti di ogni giorno, il lessico familiare, l’abitudine a prendersi cura l’uno dell’altro, ognuno a suo modo. Ma cosa succede quando il meccanismo si inceppa? Il demone di Claudio è il tempo che scorre e porta via con sé attimi di gioia e felicità irripetibile, e il protagonista chiede di poter rivivere ancora un minuto di quel passato che vorrebbe fosse ancora magicamente un presente.
«[…] però almeno possiamo vederci? Chiediglielo. Un minuto, non di più. Un solo cazzo di minuto.»
Ma dài, non ci si comporta in questo modo: uno sparisce per anni, poi all’improvviso chiama e intanto il mondo è un altro, hanno tutti lo smartphone e qui ancora parliamo coi telefoni di bachelite. Che poi li avevamo solo da bambini, dei telefoni così. Non riesco a sentire la risposta. La voce di lei, nella cornetta, la distinguo. Però non capisco.
«Allora, Teté?»
Teté ascolta, annuisce con l’aria attenta. Poi dice: «Ciao, ciao mamma». Infine attacca e mi risponde: «Dite tutti così: un minuto, solo un minuto. Però poi non vi basta».
Il nodo che attanaglia il protagonista è un altro: Claudio si è perso, non riesce a trovare se stesso. Si cerca in casa, tra le vie di Roma, fermo a un semaforo. E continua a riconoscere somiglianze nelle persone che incontra: un guidatore distratto, un vecchio rocker, un agente immobiliare, una donna che si è rifugiata in campagna.
Il protagonista vive di sensazioni che lo astraggono costantemente dalla realtà. L’unico rimedio a questa confusione è un rituale: disperdere alcuni oggetti – un ago, un’agenda, un vecchio cellulare Nokia, la cartella clinica di G. della malattia e un vecchio abito da sera – negli angoli di Roma come segni concreti della sua esistenza. L’ultima illusione – forse la più vera – di poter liberare se stesso. Ancora tormentato dalla morte della ex compagna, Claudio è un uomo che è stato colpito duro dalla vita, ma che nonostante tutto ha imparato a dilatare lo spazio per amare.
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«Vite mie», una presa di coscienza
In un momento di aridità personale, Claudio si interroga su quante vite possiamo vivere in una sola. E forse l’amore, sempre lo stesso ma più grande, è l’unico espediente per comprendere la propria identità.
Prima che io fossi uno dei protagonisti di questa disposizione di persone e cose, c’era un altro nel mio stesso ruolo, a imprecare al volante, a comprare lo sciroppo per la tosse, a godersi i primi passi di un figlio; come me, prima di me, nella stessa casa. E prima ancora ce n’era un altro.
Selvetella racconta la quotidianità – fatta di gioia, fantasmi, insicurezze, contraddizioni – di una vita scandita dai ritmi familiari. Lo stile lirico, poetico, si avvale di una prosa carica di dettagli attraverso cui il narratore tratteggia un universo fatto di confronti tra passato e presente, nel continuo ricordare chi non c’è più.
Vite mie (acquista) è un romanzo che è una presa di coscienza, consigliato a chi più volte s’interroga sul peso della propria vita e forse una risposta non l’ha ancora trovata. Dedicato a chi, nel continuo cercarsi, trova la scintilla di una nuova vita.
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