Quando si parla di Liguria, sono tante le cose che ci vengono in mente: la Liguria come luogo di frontiera ai confini con la Francia, il paesaggio fatto di ulivi e prevalentemente roccioso, il solito stereotipo del mugugno – più genovese, ma estendibile anche in altre parti della regione – che vede la gente dura e talvolta poco cordiale. Spesso, inoltre, la Liguria passa per essere una regione per vecchi, dove non c’è possibilità di futuro per i giovani.
Quel che è certo, però, è che i liguri hanno molto a cuore la propria terra per le storie che contiene, un patrimonio storico e culturale da tramandare alle generazioni future da difendere. Ne sa qualcosa Stefano Galardini, genovese trapiantato in Lombardia, con il suo secondo romanzo È atroce la luce pubblicato per la collana di narrativa italiana B8ttoni di 8tto Edizioni.
La trama di «È atroce la luce»
È atroce la luce è ambientato nel paese immaginario di Morre, al confine con la Francia e, secondo alcune coordinate geografiche, verso ponente. I protagonisti di questa storia sono le persone, in particolare i coniugi Giuà e Rea Balladore, che come tanti si trovano costretti a dover decidere se vendere la propria casa e la propria terra per fare spazio alla costruzione di un’autostrada, un’opera che porta con sé la promessa di svecchiare una comunità con turismo e soldi.
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Gli scavi, però, fanno emergere un segreto sepolto da più di vent’anni che riguarda soprattutto Giuà. Questo segreto sembra essere legato al fratello Delio, figura enigmatica e rude come la terra in cui è nato, un frontaliero e contrabbandiere da sempre contro le regole e le ingiustizie. Tutto questo mette in gioco non solo il futuro di Morre, ma anche la sua identità, e pone tutta la comunità di fronte al seguente interrogativo: è giusto seppellire il proprio passato anche se questo ha un impatto negativo sulla nostra reputazione, ma costituisce parte della nostra storia?
Scavare e ricordare a Morre
Parlando di È atroce la luce viene in mente la seguente espressione coniata dal filosofo tedesco Walter Benjamin: «scavare e ricordare». La struttura del romanzo difatti gioca molto su questa operazione di scavo e ricordo: non solo gli scavi letterali nel paese di Morre per costruire l’autostrada, ma anche gli scavi intesi in senso lato nella storia della comunità e nella memoria dei personaggi, in particolare Giuà.
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Il romanzo alterna infatti capitoli ambientati nel presente fra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta e capitoli ambientati durante la Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza e il Sessantotto. Nel momento in cui parla di Seconda Guerra Mondiale, Galardini avrebbe potuto darci una storia semplice e preconfezionata ambientata ai tempi del fascismo – come ormai sta andando un po’ di moda nel mercato editoriale odierno –, ma invece ci offre una storia inedita su un luogo che è frontiera, crocevia di storie passate e presenti che lotta per difendere la propria identità.
La Liguria di Galardini
Se prima si vuole parlare del segreto di Morre, bisogna parlare della Liguria immaginata – ma anche vissuta – da Galardini. In epigrafe l’autore genovese cita Francesco Biamonti, che in opere come L’angelo di Avrigue ci ha sempre presentato la Liguria come luogo di confine, crocevia del Mediterraneo, al punto che una volta affermò quanto segue in una sua intervista a cura di Fulvio Panzeri:
Il confine non è tra Italia e Francia: coinvolge tutto il Mediterraneo. Ci sono tre grandi personaggi nel Mediterraneo: il Golfo di Genova (Montale); il Golfo di Marsiglia (Valéry), e il Golfo di Orano (Camus) che hanno creato una civiltà letteraria legata alle cose, in cui le cose parlano al posto dell’uomo. I loro paesi diventano aspri e emblematici di una civiltà umana legata a una sorta di corrosione dell’esistenza, quella che provoca il salino. È una civiltà data dalla luce e dal sapere, dalla lucidità e dalla corrosione.
Anche per Galardini difatti la Liguria rappresentata nelle fattezze di Morre è un luogo impervio, misterioso e corroso dall’esistenza come lo è per Biamonti. La Liguria di Galardini ha un cielo di colore «grigio smorto» e una terra «gonfia di pietre» per la quale la gente mostra «un’animosità violenta, simile all’odio vero». Una terra con cui si ha un rapporto d’amore e odio, al punto da provare «un amore bastardo», tipico sentimento che si prova per le cose che si vogliono abbandonare, ma non si riesce a farlo.
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Per la rabbia, il dolore e il silenzio che contiene, questa Liguria ricorda soprattutto quella delle serre tratteggiata da Francesco Marangi in Angeli di sale e quella immobile e rabbiosa di città come Genova e delle montagne della Val Graveglia di Michele Vaccari in Urla sempre, primavera e Buio padre. Come per il primo, anche in Galardini la Liguria si fa luogo dell’anima rappresentando la corrosione dell’animo di Giuà, che da un lato vuole in fondo disfarsi della sua terra per dimenticare il passato, ma dall’altro vi è legato per via del fratello Delio. Come per Vaccari, invece, anche qui abbiamo una storia di rimozione forzata voluta da un progresso che sfrutta il territorio privandolo di ogni effettiva possibilità di futuro per mandare avanti i propri interessi.
Un’autostrada per nascondere il passato
Alla scoperta del segreto di Morre ci si arriva tramite la costruzione dell’autostrada voluta dal sindaco del paese Mino Casagrande. Quest’ultimo evento ricorda molto quanto è accaduto recentemente con la TAV in Val di Susa, con persone che da un lato sono favorevoli per i soldi che quest’opera dovrebbe portare e dall’altro sono contrarie perché quest’opera andrebbe a deturpare un paesaggio ormai senza più prospettive:
“Non farti fregare anche tu con questa storia dei soldi, Giovanni. Il sindaco ci ha preso tutti per le palle con quella favola. Ha sventolato una mazzetta in faccia alla gente come una bella promessa e intanto gli stringeva il cappio alla gola. La verità è che questa valle stava crepando già ben prima che arrivassero quelli dell’autostrada. E ora con una promessa di rinascita le stanno dando il colpo di grazia”.
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Casagrande, inoltre, motiva la scelta di realizzare questa opera dicendo che nella vita bisogna scegliere «il genere di uomo che si vuole essere», e soprattutto che bisogna pensare «al paese dei vivi». In realtà, pensare al paese dei vivi per il sindaco significa pensare ai soldi, falsificare documenti per costruire laddove è impossibile, ma soprattutto rimuovere un pezzo importante del proprio passato, come succederà nel momento in cui dopo l’alluvione emergono – ed è l’unica anticipazione che possiamo dare – i resti di un cadavere probabilmente morto vent’anni fa.
Ossa di un passato che riemerge
Ritornando a Michele Vaccari, le ossa che emergono dagli scavi sono come gli zombie che attaccano Crinale in Buio padre: sono elementi che escono dalla rimozione collettiva per chiedere ai propri abitanti il riconoscimento del passato e della loro responsabilità nei suoi confronti come parte fondante della propria identità. Il passato che Morre cerca di nascondere non solo è quello dei passeur, dei frontalieri e contrabbandieri, ma anche quello delle chiacchiere di paese, di chi si porta addosso il marchio della vergogna, come Rea, definita «la negra, perché sono scura e ho i capelli ricci, o la zingara, perché sono matta come un cavallo».
Il passato che Casagrande e parte dei paesani vogliono nascondere rimuovendo le ossa trovate è quello di un paese che in tempi di guerra era diventato rifugio di criminale e delinquenti, un paese di gente che si è sempre sentita straniera sulla propria terra perché non gli è mai appartenuta. Nonostante questo, però, il passato di Morre è quello di un paese che ha saputo combattere contro i padroni, che ha sempre rivendicato la propria libertà, quella stessa libertà che Casagrande vuole privare per arricchirsi vendendo pezzi di territorio a chi deve costruire l’autostrada.
Alla domanda su che genere di persone si vuole essere, Giuà risponde attraverso le sue azioni. Il protagonista vuole andare a fondo alla vicenda delle ossa, perché scavando e ricordando nel territorio impervio di Morre significa restare ancorati al proprio passato di resistenza e attaccamento alla terra. Anche se Morre è stato un luogo di contrabbandieri e criminali, Morre è tale perché i passeur hanno forgiato la sua identità, e svendersi a chi costruisce l’autostrada significa diventare un non-luogo che attrae sì gente, ma che non ha un legame con la terra e che cancellerà per sempre una storia e un’identità.
Una luce atroce, ma necessaria
È atroce la luce (acquista) ci racconta una storia che tanto ricorda le vicende della Val Susa con la TAV, la diga del Vajont oppure il campanile sommerso di Resia. La vicenda di Morre e della sua autostrada ci ricorda ancora una volta come il progresso porta sì soldi e turismo, ma allo stesso tempo comporta la cancellazione e la rimozione di parte importante della nostra storia e della nostra cultura. Galardini ci consegna, così, il ritratto di una Liguria dall’esistenza corrosa fra progresso e passato che proiettandosi verso il futuro deve lottare per non morire per sempre e per non perdere la propria identità riducendosi a non-luogo.
Delio rise di gusto. “Incredibile, certe cose più cambiano e più restano uguali. Niente cambierà mai davvero, quassù. Mi hai chiesto perché sono tornato, ecco il perché. Perché qui le regole saranno sempre le stesse”.
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