La ricerca di un’identità propria passa attraverso il bisogno di cambiar pelle. La Fame blu di cui parla Viola Di Grado (La nave di Teseo, 2022) è la necessità di perdersi per fare i conti con una perdita, l’incapacità di colmare il vorace vuoto di un lutto porta al dubbio, all’insicurezza su ciò che sappiamo del corpo, del linguaggio. E allora tanto vale seguire le orme di un sogno che appartiene a qualcun altro. «La Cina era il sogno di Ruben, non il mio. L’aveva sognata per anni.»
Una ragazza venticinquenne di Roma, a seguito della morte del gemello, decide di fuggire a Shangai. La città di plastica, della vita sfrenata, ipnotica e letale. Come l’amore. Ed è proprio in quell’eccesso di artificialità claustrofobica che la protagonista, nonché voce narrante, incontra Xu. In lei trova stordimento e rassicurazione. Non nasce un rapporto totalizzante ma distruttivo, eppure è ciò di cui ha bisogno. Non è alla ricerca di un amore mite, credibile, autocontrollato. No, lei «è quella che mi mette in pericolo e mi fa dimenticare il sogno banale che accomuna gli umani: stare in pace, in sicurezza, stare in pace e in sicurezza.»
Non ricordo più com’ero prima di incontrarla. Ricordo le cose anagrafiche, quelle che chiunque potrebbe sapere. Tipo che vivevo a Roma da quando ero nata e che guardavo molte serie tv sul divano di casa. Ricordo che avevo due genitori a cui volevo bene, ce li ho ancora, e fino a sei mesi fa avevo anche un fratello. Ricordo la pianta grassa con i bordi marroncini – una pilea cinese – sul davanzale della mia stanza[…]. Ricordo che avevo capelli lunghissimi e dormivo molto e che prima di dormire mi dicevo che l’indomani avrei innaffiato la pianta, l’avrei fatto di sicuro, ma poi non lo facevo mai.
«Fame blu», colmarsi a vicenda
Tra le due ragazze c’è sempre qualcosa di non detto, di incomunicabile, ed ecco che il corpo e il linguaggio entrano in gioco in loro aiuto. Xu è un nome difficile da pronunciare, tanto che a un certo punto la protagonista smetterà di chiamarla per nome, aprirà la bocca e resterà così, sospesa, stroncata dalla sua «fame d’aria». D’altro canto, lei non si presenterà mai con il suo nome ma come Ruben. La totale repressione di sé.
“Non era il nome di tuo fratello?” Le chiede Xu durante il loro primo incontro. “Sì, ora è il mio”.
Viola Di Grado infrange l’idea secondo cui i gemelli siano legati da un filo simbiotico, esplorando una realistica dimensione di fratellanza in cui nell’assenza ci si immedesima in un’immagine, la protagonista si aggrappa a denti stretti al ricordo del fratello. Solo così può colmare la fame. Una fame emotiva che la protagonista cerca di tappare nutrendosi ossessivamente pur di non pensare al dolore, mentre l’altra evita di mangiare e accumula cibo e lo osserva marcire. «Mangiami» chiede a Xu.
Era solo una metafora? La mia frase, dico. Era l’ultima metafora della nostra relazione? Ancora cerco di capire. Ma capire è un esercizio di freddezza. Capire è il contrario della fame. È il contrario del desiderio. Xu morse di nuovo. Una linea di sangue nero, caldo come cioccolato fuso, scese fino all’ombelico.
La prima volta in cui vanno a letto insieme, corpi accostati, è questo quello che si comunicano: colmare la fame che entrambe hanno, colmarsi a vicenda.
Quando Xu mi morde, quando mi ha tra i denti, nuda e cattiva su di me, io sto bene. Non è una cosa umana ma è accaduta lo stesso, come accadono i tifoni e i terremoti.
Fidarsi dello stomaco
La storia di un intreccio tra seduzione e malvagità. Quel loro modo di dominarsi è una sorta di bulimia di sottomissione, un avido bisogno di attenzioni mai scontate, facili o prevedibili. E, infine, appartenere all’altro anche se non si ha alcuna certezza di sé, logoranti consapevolezze di una finta perfezione.
La soffocante impressione che Viola Di Grado trasmette al lettore è la frammentarietà di un disagio, l’imprevedibile ossessione che travolge e nutre. Sui mezzi di trasporto, con i polmoni pieni di smog, annebbiati da una pillola gialla, in Fame blu bisogna lasciarsi guidare nel labirinto-percorso tortuoso di un amore assoluto, ormai sepolto, e di un amore tossico che può rivelarsi una via di salvezza.
Il corpo (le mani, il cervello, la gola, anche le cicatrici) viene smembrato in trenta piccoli pezzi per poi, in definitiva, ritrovarsi nel corpo di un’altra. A volte distante, pur sempre dominante come la gravità. La sofferenza è una sfumatura difficile da riconoscere se non comunicandola attraverso le parole, eppure non esiste una lingua adatta per definire in maniera precisa il grado di acutezza del dolore. Nessuno è insensibile alle cicatrici, soprattutto se sotto pelle. Non resta che fidarsi dello stomaco.
Fame blu (acquista) è un romanzo consigliato a chi è abbastanza audace da non sottrarsi a una storia magnetica di abusi emotivi, dove una prosa scabra fa da nido a uno svisceramento di pensieri che si fanno spazio tra gli ingombranti corpi. La malinconia sarà il souvenir di questo viaggio mai sognato, mai programmato.
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