Chi è stato innamorato lo sa bene: le strade, le panchine, i biscotti, le piante nell’appartamento, tutto ciò che è stato condiviso con una persona – anche dopo la sua dipartita – rimarrà sempre legato ad essa, nonostante questa non faccia più parte della nostra vita. E forse chiunque decida di aprire e leggere Sembra che presto annegherò, l’esordio di Filippo Ronca edito Mondadori, finirà – attraverso la forza della propria memoria, collazionando i frammenti rimasti – per ricostruire la fenomenologia di un amore passato. Un giorno Manfredi viene inaspettatamente lasciato da Antonia, freddato con una lapidaria sentenza – «la nostra storia è finita, Manfredi» – a cui neppure il più tenero amante può opporsi.
Inerme, ascolta le parole dell’Antonia, condite da verbi al passato («sei stato meraviglioso, sei stato prezioso, sei stato delicato»): complimenti o tenerezze che, anziché indorare la pillola, rendono ancora più dolorosa e amara la separazione. Ma d’altronde, al termine di una storia d’amore, non ci si può certo sentire diversamente. Incapaci di reagire, costretti a incassare il colpo senza possibilità o speranza di appello. E ancora: spaesati, sperduti, alla ricerca incessante di un punto stabile all’interno della propria vita, chiedendosi, minuto dopo minuto: «ma dove vado adesso?».
«Sembra che presto annegherò»: le prime volte, le ultime volte
Neppure le correnti del mare smuovono il cadavere di Manfredi:
Adesso, che l’Antonia mi ha detto quelle parole, adesso, mi pare di essere uno che si sveglia e scopre di avere le mani azzurre e continua a guardarsele, adesso, uno che a colazione non si ricorda più i nomi dei giorni e guarda fisso le mattonelle del pavimento della cucina, le guarda nella speranza che le mattonelle ruotino e scoprano i nomi dei giorni, come il tabellone dei treni. Questo domenica, adesso, ha perso le lettere che la compongono, i tabelloni che la scrivono, gli orologi che la esauriscono.
Tutto ciò che teneva in piedi l’esistenza di Manfredi crolla, non appena quel comun denominatore scompare; e imperversano la confusione, il senso di annebbiamento, accompagnato da sfocature e suoni ovattati: «Cosa ha detto l’Antonia?», si chiede il protagonista, ancora sbigottito dall’annuncio della donna. Come con un registratore, vorrebbe riavvolgere il nastro e risentire le parole pronunciate prima dello schianto:
Le avrò sentite bene? Come le ritrovo adesso? Dove le ho messe? Prima mi spingevano, mi strattonavano, mi soffocavano, adesso le cerco e non le trovo. Vorrei risentirle, vederle da vicino, come formiche. Ma non posso. Sono finite.
Tutte le ultime volte che «il dolore mette in risalto», tutti quei «gesti insignificanti che assumono l’altezza dei libri di storia, per poi sciogliersi e scomparire al mattino» bussano alla soglia del ricordo, simili a fantasmi. Riprendersi dalla nostalgia di un amore passato, bruscamente interrotto, è operazione quanto mai difficile e struggente. Si è soffocati da parole provenienti dal passato, che sembrano addirittura materializzarsi dinanzi al protagonista e occupare spazi concreti e ben visibili. Si posano sul cruscotto della macchina, tappezzano i muri della città di Brescia, assediano l’appartamento in cui vive Manfredi.
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Senza Antonia
L’Antonia, con il suo corpo «che diventa una collina sotto al piumone» e con il proprio viso delicatamente poggiato sul petto di Manfredi. L’Antonia, con il suo odore e le sue forme che dominano e rimodellano il paesaggio, che via via assume i colori e i contorni della ragazza: colline di Antonia, fiumi di Antonia, laghi di Antonia. L’Antonia, che «sembra grandissima» e riempie le stanze in cui entra – e il vuoto lasciato da una persona così grande, divenuto ormai presenza, sussurro, non può essere facilmente riempito. Esso è voragine, spazio incolmabile che, come un mulinello, attrae ogni cosa al suo interno, fagocitandola e annientandola. L’Antonia, che è tutte le cose ed è in tutte le cose, se n’è andata: e ognuna di esse – esistita o esistente – sprofonda nel buco nero dell’amore, riportando il lettore sempre dinanzi a quel nome femminile, a quel «viso tagliato a metà dal cuscino».
Imperversa, in Manfredi, il terrore di dover rimanere per sempre da solo, il timore di doversi accontentare di altre donne che non sono l’Antonia: Gaia, Teresa, Elena, donne con cui intrattiene brevi e fugaci relazioni alle quali neppure lui stesso crede. Sa benissimo che non c’è e non potrà esserci «nessun domani con Teresa». E la ragione non può essere più banale e infantile di così: Teresa, semplicemente, non è Antonia. Ma Manfredi, perennemente accompagnato da «quella sensazione di dover ritornare da qualche parte», continua a cercare: come volesse rientrare in un sogno, nell’idillio vissuto e abbandonato, in un passato calmo e sereno con la donna che adesso non è più al suo fianco.
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E, che si tratti di una semplice corsa o di un lungo viaggio in barca nel Mediterraneo, tra le pagine di Sembra che presto annegherò persiste tenacemente l’ardore del ritorno, che affiora e si afferma come quella verità che non può in alcun modo nascondersi e che trionfalmente risale sempre a galla. Assalito dalla sensazione di non poter più respirare, come in preda a un’opprimente marea che, giorno dopo giorno, si materializza nell’appartamento di via dell’Orsa Maggiore, Manfredi sembra vivere in apnea. E il naufragio, nell’aperto e sconfinato Mediterraneo, diventa la rappresentazione di quest’amore implacabile e travolgente: soccombente fra le onde che assaltano la nave di Adriano, percosso dai colpi del mare in tempesta, Manfredi sviene e affonda «in quel blu infinito, che è pace, che è libertà, dove non c’è sofferenza».
Annaspare nel blu infinito
Anche sopraffatto e trascinato dalla burrasca, l’ultima immagine che occupa la mente del protagonista non può che essere la stessa a cui Ronca ha abituato il lettore fin dalle prime pagine di Sembra che presto annegherò (acquista), quello stesso fantasma che ha animato e scosso le giornate di Manfredi:
Lei che corre e attraversa la strada, in una sera di febbraio, controllando che non arrivino auto e mi dice:
“Ciao! [sorride] Sono in ritardo, vero?”
“Di circa cinque anni. Hai i capelli lunghi, non li ricordavo così lunghi!”
E la sua voce, il timbro della sua voce, ora, in queste parole forse non ci sta, ma la sua voce, in quella sera di febbraio, e in tutte le sere che sono state nostre, era di una dolcezza che pareva glicine. L’ultima cosa che penso, prima di morire, è che io, in apnea, alla fine, ci sono sempre stato. Tranne i giorni passati con lei.
Forse ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà pensato a un suo ultimo ricordo da portare con sé nell’aldilà. Un tale pensiero, per Manfredi, risuona come il semplice nome «che riempie per l’ultima volta lo spazio tra le mie labbra e una piccola parte di mare». Accanto alla morte, dolce come una musica leggera e incantevole, un sussurro: Antonia.
Articolo di Rocco Rossi
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