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«Storia aperta», ricostruire la vita di un padre

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Storia aperta

«Noi. Chi siamo noi? Noi siamo poco». Dice questo in Storia aperta Davide Orecchio, uno dei libri nella dozzina del Premio Strega. Avrebbe potuto esserlo per i motivi più disparati, il primo dei quali il contenuto legato al fascismo e alla resistenza che possono renderlo interessante per molti e “politicamente” impegnato. Non è, tuttavia, questa la principale ragione che probabilmente ha spinto a voler fare conoscere a quanta più gente possibile questo incredibile lavoro.

Romanzo epistolare, ibrido tra realtà e finzione, saggistica, ma anche narrativa, fin dalle fonti che con orgoglio Orecchio elenca, si comprende quanto monumentale sia il lavoro dietro a questo libro. Una storia aperta ancora per noi lettori, proprio perché è un viaggio verso un padre.

Björn Larsson, l’autore svedese che in Italia leggiamo grazie a Iperborea, ha scritto con Nel nome del figlio qualcosa di analogo. Non è un romanzo storico, bensì una trattazione che sfora l’antropologia e l’autobiografia; Orecchio riprende il detto storpiato nel titolo così come si conosce in origine. Nel nome del padre si lega a una dimensione religiosa simile allo stile del romanzo, ma è anche lo scopo per cui probabilmente è stato scritto. Ritroviamo antropologia e autobiografia familiare in una veste diversa e profonda, che ci mostra quanto gli scrittori non sappiano resistere alla tentazione di ricercare i propri padri attraverso la scrittura.

«Storia aperta»: alla ricerca del padre perduto

Davide Orecchio sceglie di raccontare una storia che non è inventata, ma è quella di suo padre. Lo scrittore Alfredo Orecchio, scomparso nel 2001, che è stato un padre assente e che forse può cercare, in qualche modo, attraverso la pagina. Già in Città distrutte. Sei biografie infedeli Orecchio aveva raccontato una storia fittizia ispirata al padre.

Fin dall’inizio si parla di “bambino diacronico”, un bambino che attraversa il tempo e di cui conosciamo tutte le età e vicissitudini. La narrazione di Orecchio è incredibilmente scorrevole, permette di immedesimarsi appieno su quanto il giovane vive. Questo Pietro Migliorisi, l’alter ego del padre, che ha vissuto più orrore di quanto si possa dire, che dal fascismo ha trovato il comunismo, che ha rinunciato a tutto «per scorticare il fascismo da sé, ma è una tosatura lunga, le bucce si sono ispessite».

Il tentativo lento e inesorabile, in un certo senso, di “salvarsi” del protagonista coincide con la ricerca di un punto di riferimento, sia esso M (come viene sempre indicato Mussolini) o il Partito Comunista, ma quella che abbiamo davanti non è una fredda biografia, bensì il racconto tremendo di una persona che nella sua vita ha amato leggere e scrivere i poeti, ne ha abbracciato la profondità così come ha abbracciato l’orrore del secolo, il Novecento, che per Osip Mandel’štam è «una belva».

Ora il secondo ha una memoria, un rancore, una rabbia e le usa per rendere vita, per spezzare la storia e noi lo vediamo quando a Castrogiovanni, in una notte gialla, pochi giorni avanti al ventuno di ottobre, nel pieno della «luce ad acetilene» Pietro il bambino diacronico incontra i primi fascisti della sua vita, vestiti di nero, coi «teschi in petto e anche nel fez».

«Storia aperta» è più di un romanzo storico

Per il fittizio Pietro che è in realtà Alfredo Orecchio, allora, si prospetteranno decisioni difficili, guidate da letture controcorrente e dal talento della parola che rende Storia aperta molto più di un semplice romanzo storico. Ha l’autorevolezza di definirsi tale per le fonti interessanti e ricche che l’autore utilizza, ma si guarda bene dal dimenticare l’anima e la caratterizzazione dei personaggi. In particolar modo nella narrazione della sofferenza, certo anche grazie alle fonti vive di diari e lettere, Orecchio si dimostra un maestro.

Mai mi era capitato di sentire il mondo completamento estraneo, e cattivo, e gelato, ma adesso mi pare di averlo definitivamente scavalcato, ormai è divenuto tutto un mitologico scheletro, e non m’importa più.

Come quando Davide Orecchio descrive la madre, cioè la moglie di Pietro, che scambia lettere con il marito e deve allontanarlo quando abbraccia il comunismo.

Credevo di essermi esercitata nel gestire questa sofferenza, che si fosse ingrigita diventando più malleabile, invece mi assale con forza rinnovata. Per fortuna so per esperienza che, quando fa così male che penso di perdere conoscenza, il dolore evapora. Proprio come le persone che perdono un braccio o una gamba in un incidente dicono che non hanno sentito nulla, perché i nervi non possono trasmettere così tanto dolore al cervello, il sistema diventa sovraccarico, avviene se io lascio che questa sofferenza mi pervada senza opporre resistenza.

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Oppure ancora quando descrive Roma, la città eterna, nel suo splendore ma anche nella sua pericolosità. Questa coincide con l’essere luogo e fonte di accadimenti che per noi sono solo “storia” e invece per chi li ha vissuti erano vita. Un bambino diacronico che poi è cresciuto e ha dovuto, per salvarsi, abbracciare e cercare qualcosa. Sembra, a tratti, di sentir riecheggiare il monologo gaberiano Qualcuno era comunista.

Poi Felice porta Pietro alla grande adunata nell’università nuova, nella Sapienza che s’inaugura col natale di Roma, con le sue facoltà bianche, il suo rettorato, la sua fontana e i vialetti alberati, e il cielo opaco annebbiava gli intonaci ancora freschi della città universitaria romana.

L’anafora e la ripetizione come liturgie

Oltre a voler privilegiare, come valori assoluti in questo romanzo, le sensazioni e le impressioni che la storia suscita nell’individuo, un aspetto stilistico assolutamente interessante è costituito dalle volute continue ripetizioni. Diversi periodi sono un insieme di anafore, a inizio frase si ripete spesso il nome di un personaggio, oppure “E poi”, come fosse una liturgia, una sorta di preghiera da ripetere.

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Narrare in questa maniera ricostruisce un effetto drammatico, sicuramente utile a catturare l’attenzione del lettore, ma restistuisce anche vivacità ai fatti, che poi fatti non sono. Il romanzo scorre velocemente proprio per la capacità di puntare, con poche parole, sul singolo elemento peculiare di una situazione, di un concetto, di un momento. Come quando sottolinea il verbo leggere in riferimento a Pietro:

Ha già letto Remarque e Renn, che in Italia sono vietati, ha letto Joyce e Gli indifferenti, ha letto Il processo di Kafka nella Biblioteca europea di Frassinelli, ha letto Danton, Robespierre e Saint-Just, è quasi maturo per inciampare su Marx.

Perché se è vero che siamo poco, le idee sono tanto, quindi a prescindere dal colore, dal partito, da tutto questo, ciò che arriva al lettore è la grande, immensa figura del protagonista. Il lettore soffre con lui, si emoziona quando Pietro vuole salvarsi e, capendo di non sapere chi sia Antonio Gramsci, si ripromette «imparerò imparerò», ripetendolo come in un momento sacro. Né si può dimenticare dopo averlo letto così tante volte l’incessante ripetere «se voglio salvarmi, se voglio salvarmi»:

E se voglio salvarmi voglio me comunista, ucciderò il mio fascismo per rinascere rosso, rosso, rosso, se voglio salvarmi, se voglio salvarmi, se voglio salvarmi.

Così che, quando la lettura di Storia aperta (acquista) è conclusa, al lettore sembra ancora di trovarsi a Roma, di poter ancora sentire parlare Pietro, e ha un forte desiderio di sapere cosa ne pensa di Montale, cosa ne pensa del mondo, e sente tutta la ferocia del «secolo belva» cantato da Mandel’štam:

Secolo mio, mia belva, chi saprà
fissare lo sguardo nelle tue pupille,
chi incollerà con il proprio sangue
le vertebre di due secoli?
Sangue costruttore sgorga
dalla gola di cose terrene
e solo il parassita sta in ansia
sul limitare di nuovi giorni.

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Silvia Argento

Nata ad Agrigento nel 1997, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Filologia Moderna e Italianistica e una seconda magistrale in Editoria e scrittura con lode. Ha un master in giornalismo, è docente di letteratura italiana e latina, scrittrice e redattrice per vari siti di divulgazione culturale. Autrice di un saggio su Oscar Wilde e della raccolta di racconti «Dipinti, brevi storie di fragilità».

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