Gabriel Abreu scrive una lettera a sua madre Miriam, affetta da una grave demenza. Cercando di ritrovare la voce della donna, si mette alla ricerca anche della propria.
Lettera alla madre
Un diario, delle fotografie e sessantotto lettere conservate in una scatola ritrovata in cima a uno scaffale sono tutto ciò che G. possiede della madre Miriam, oltre ai ricordi di un passato condiviso. Miriam che, nel momento in cui il figlio le scrive un romanzo-lettera, si trova allettata in una stanza al piano di sopra della casa familiare. Miriam, a cui è stata diagnosticata la demenza frontotemporale e che, a poco a poco, ha perso la memoria, la parola, l’energia vitale. In Triste non è la parola giusta, il brasiliano Gabriel Abreu usa la grammatica dei sentimenti per andare a ritroso nel tempo, ritrovare quella madre perduta e capire chi fosse, prima della maternità.
«Ti scrivo e ti mando questa lettera per provare a ritrovare, nella mia voce, la tua», dice dopo aver sfogliato lettere, mandato mail, aver cercato amori passati di Miriam e letto referti e bugiardini dei tanti farmaci che le sono stati prescritti negli anni. Il padre di G., davanti alla notizia del lavoro in corso per realizzare un libro sulla donna, risponde freddamente: «Tua madre è viva, sta al piano di sopra». Davanti a una malattia che investe la persona nel corpo e nella mente, cambiandola profondamente, non è facile accettare tutto ciò che è mutato, il nuovo ordine che è un caos. Ma, come nel caso del padre, non è facile nemmeno vedere quella nuova condizione, perché significa farla diventare reale.
Scrivo perché credo che la persona che è qui davanti a me non sia più mia madre e perché da qui non riesco più a scorgere le intersezioni fra il tuo corpo e la tua mente. Il corpo oggi è un corpo che riceve assistenza, passivo, è un corpo alimentato, pulito e fatto muovere a forza. Scrivo perché la tua mente è rimasta nella memoria degli altri e oggi si manifesta in barlumi, come le poche volte che sorridi e io mi domando se non sia l’ultima.
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Triste non è la parola giusta
Chi si trova a convivere con un parente affetto da una patologia neurodegenerativa vive un lento, interminabile lutto. La diagnosi è un terremoto e tutto ciò che viene dopo è una ricerca costante di equilibrio, tra le continue scosse dell’esistenza. «La vita era stata messa in pausa con tutto dentro», racconta G. nel momento in cui si addentra nelle stanze della casa dei genitori, fino ad arrivare davanti allo scaffale dove avrebbe poi trovato la scatola della madre. Scatola che era sempre stata lì, dal momento che «Nulla era stato spostato, perché avrebbe significato confermare la perdita».
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La sensazione con cui il figlio si trova ad avere a che fare davanti alla malattia della madre non è tristezza: no, «Triste non è la parola giusta. La sensazione in realtà sfugge al vocabolario. È un insieme di cose, indecifrabile. È tristezza, sì, ma una tristezza sopportabile e perenne, un lieve nodo alla gola che si disfa ogni volta che deglutisco a secco e si riallaccia subito dopo». Quella sensazione che G. prova davanti alla madre è una «malinconia calma, un dolce e compiaciuto lamento che torna sempre». Triste non è la parola giusta: è odio. Rabbia per quella malattia che ha reso la madre quasi una bambina, fragile e senza forze, da accudire.
Davanti alla donna allettata, deve rielaborare il lutto, deve accettare la perdita prima ancora che il letto sia vuoto e la coperta fredda: perché la madre che ha conosciuto e amato non c’è più. La malattia se l’è portata via. Ecco, allora, che la vita stessa del figlio diventa – come ha scritto Abreu – un «insopportabile e lungo addio».
La lingua
Un romanzo delicato, un protagonista che entra in punta di piedi nel passato della propria mamma, cercandola e al tempo stesso cercandosi. Un romanzo, Triste non è la parola giusta (acquista), che ha convinto anche la giuria del Premio Iess, aggiudicandosi il primo posto per il miglior romanzo d’esordio latinoamericano under 35. Gabriel Abreu dà voce ai figli dei pazienti con demenza, raccontando il puzzle emotivo che, non certo senza fatica, viene composto giorno dopo giorno, cucendo documenti, ricordi, fotografie e affetti.
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