L’umorismo corrosivo che non piacque mai all’Unione Sovietica

«La valigia» di Sergej Dovlatov

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«La valigia» di Sergej Dovlatov

Stati Uniti, 1986. Sergej Dovlatov è uno dei tanti russi di origine ebraica fuggiti dall’Unione Sovietica durante la grande emigrazione verso l’Occidente, che ha caratterizzato gli anni Settanta e Ottanta del Novecento. In questo suo viaggio, Dovlatov portava con sé una sola valigia, ammaccata e consunta dagli anni. Ed è proprio questa valigia, oggetto simbolo del diasporico destino che caratterizza tutti gli uomini, il fulcro dell’omonima raccolta di racconti, appunto La valigia, tradotta e pubblicata in Italia da Sellerio Editore.

«La valigia»: la trama

Sergej Dovlatov si trova all’ufficio espatrio: sta per lasciare la Russia e con sé porta soltanto i pochi oggetti collezionati in trentasei anni di vita. Così pochi da poter essere comodamente riposti in una malconcia valigia, tenuta insieme da una corda da bucato. A distanza di anni, una volta stabilitosi negli Stati Uniti, per una circostanza causale riapre la valigia e ne estrae le cianfrusaglie al suo interno: a ciascun oggetto corrisponde un aneddoto, e a ciascun aneddoto un racconto che ricostruisce i cocci di un’esistenza stravagante e dolorosa, ma vissuta con ironia e intensità.

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Dovlatov, straniero ovunque

Ironia sagace, spirito da dissidente e tonalità che non cede mai al vittimismo: sono questi gli ingredienti che rendono Dovlatov uno dei più grandi scrittori del Novecento russo, e La valigia una piccola grande perla di letteratura. E sono gli stessi elementi che non piacquero mai agli organi di controllo sovietici. Il suo umorismo corrosivo non rientrava nei canoni della cultura russa e per questo motivo le sue opere non riuscirono mai a oltrepassare, in Russia, la cerchia del samizdat (pubblicazioni clandestine).

Dovlatov, infatti, scrisse varie opere letterarie, ma i suoi numerosi tentativi di pubblicare in Unione Sovietica furono sempre vani. L’edizione del suo primo libro venne distrutta dal KGB. Nel 1976 alcuni suoi racconti furono pubblicati su riviste occidentali in lingua russa, inclusa Kontinent (Континент) e Vremja i my (Время и мы): questo fatto provocò non solo la sua espulsione dall’Unione dei Giornalisti dell’URSS, ma anche la perdita di salario e di privilegi.

È stato un incredibile mix di casi sfortunati […] Da una parte, sembrava soprattutto sfortuna: nessuno mi pubblicava. Non potevo guadagnarmi da vivere con la mia attività letteraria. Ho iniziato ad avere problemi psicologici, ho iniziato a bere forte. Ed ero circondato da gente simile, simili geni incompresi col vizio di bere. Dall’altra parte, ovunque portassi i miei racconti non sentivo altro che complimenti. Nessuno ha mai espresso dubbi sul mio diritto di scrivere, di fare letteratura.

Le sue opere vedranno la luce della libertà soltanto nel 1986, in Occidente. Grazie all’emigrazione a New York nel 1978, infatti, Dovlatov inizia a riscontrare successo. Il suo genere è il racconto, di cui il mondo russo e insieme il suo mondo interiore costituiscono sempre lo sfondo. Emerge, in ogni suo racconto, una malinconica nostalgia di fondo che non è legata alla perdita della Russia o alle difficoltà dell’emigrazione, ma è un sentimento che Dovlatov cova silenziosamente. Pervade in lui la costante sensazione di essere straniero ovunque.

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L’ironia come antidoto al vittimismo

La valigia (acquista) è un’opera spiccatamente autobiografica: nelle pagine di ciascuno degli otto racconti che la compongono, Dovlatov parla di sé, di un uomo dal sangue ebreo e l’anima dissidente, nato in una società spiccatamente antisemita e coercitiva. Ma la tonalità delle sue pagine non cede mai al vittimismo. Egli è un uomo schivo e non egocentrico, che preferisce uscire di scena piuttosto che riconoscere un senso nella realtà. La società che lo circonda è assurda e paradossale, ed è inutile per lui cercare di estrapolarne un senso attraverso la letteratura.

Ed è per questo che La valigia non ha alcuna pretesa didascalico-educativa: Dovlatov, tramite una scrittura graffiante e dissacratoria, si limita a raccontare degli aneddoti paradossali e divertenti del proprio passato. Lo fa, appunto, servendosi di un umorismo corrosivo: la sola modalità di scrittura, l’unico strumento che resta a un uomo nato e cresciuto nell’assurdità della realtà sovietica.

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Redazione MM

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