Cos’è un bosco? È un luogo che al suo interno contiene moltitudini di vite e di sguardi. È una zona liminale, vicino al nostro contesto ma che tendiamo a relegare nelle retrovie, da vivere fino in fondo per conoscere ogni sua particolarità e gli elementi che lo compongono. Anche l’editoria è, in fondo, un bosco, pieno di letterature e di sguardi sul reale a volte inediti.
Bosco è anche la nuova raccolta di prose brevi di Antonio Vangone, scrittore napoletano che dopo Attribuzioni per pièdimosca edizioni torna in libreria per i tipi di déclic edizioni, casa editrice fondata da Carlo Sperduti che propone una letteratura inclassificabile, sperimentale che costruisce e decostruisce la forma e lo stile.
Le prose brevi di «Bosco»
Un piccione, un ragazzo dorato, un robot che scrive haiku, un drago e delle suore che pregano scavando nel terreno. Questi sono alcuni dei protagonisti di Bosco, un libro senza trama ambientato ovunque ma allo stesso tempo da nessuna parte, che non accetta confini né categorie. Un libro a volte ironico, a volte malinconico, che frammenta il nostro modo di vedere le cose regalandoci uno sguardo sempre inedito sul reale.
Queste prose brevi mettono in gioco la nostra percezione invitandoci a entrare nel bosco della nostra quotidianità per conoscere vite marginali, fuori dai soliti canali mainstream, ma che sono tanto simili a noi: si tratta, infatti, di modi di vivere una stessa quotidianità – che sia il lavoro, la famiglia, la scuola o la religione – ma filtrata in maniera nuova, quasi a voler essere un elogio della pluralità di sguardi e di esperienze del reale.
Il «multiperso» secondo Antonio Vangone
Questa molteplicità di sguardi che ci offre Vangone con Bosco ben rispecchia il concetto di «multiperso», termine coniato da Carlo Sperduti all’indomani della pubblicazione dell’omonima antologia che inaugurò due anni fa la sua collana “glossa” per pièdimosca, e che così si può definire riprendendo le parole dell’autore romano:
Contenere moltitudini non è contraddizione. Contraddirsi non è contraddirsi. La letteratura non è una: il singolare è bandito. Non c’è letteratura. Soprattutto non c’è Letteratura. Ci sono letterature: impossibile contarle. Si può imboccare una via. Se ne possono imboccare molte. Ci si può soltanto perdere. Se non ci si perde, si rischia di arrivare. Di conseguenza: la tentazione di stare, la letteratura, la Letteratura. Il multiperso non sta. Nel multiperso ci si sposta.
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Se si leggono queste parole con attenzione, si può trovare la chiave di lettura della raccolta di Vangone. Il libro, infatti, non ha trama, perché supporre l’esistenza di una trama significa racchiudere una storia in uno schema fisso. L’autore napoletano ci offre, dunque, una macrostoria – quella del bosco, da intendersi in senso metaforico come zona di confine e moltitudine – che contiene al suo interno tante microstorie sempre in movimento, con personaggi e prospettive sempre diverse e un linguaggio sempre fluido e dinamico.
Il linguaggio di Vangone è fluido, fatto di accumuli, di frasi dal ritmo incalzante e spesso anaforiche. È simile alla lumaca che Virginia Woolf descrive nel racconto breve Il segno sul muro: vorticosa, contiene moltitudini di un’umanità e una quotidianità all’apparenza monolitica, ma che osservata da vicino risulta sempre più variegata e mai banale.
Crisi algoritmiche
Un aspetto fondamentale che ancora non è stato messo in luce è il fatto che Vangone, presentando le sue moltitudini, implicitamente fa una critica verso un sistema editoriale sempre uguale a se stesso e che difficilmente propone uno sguardo inedito sul reale. Ciò è evidente nei seguenti versi tratti dal microracconto in versi Haiku il robot:
non come ferro
venduto il poeta
ultima gloria
una moneta
polveroso baretto
una poesia
Quello che qui denuncia l’autore, infatti, è una «crisi algoritmica» che non ammette la novità, ma che coglie soltanto una letteratura e uno sguardo pronto al consumo, che va bene solo nel breve termine per guadagnare una moneta nel baretto dopo aver recitato la propria poesia e poi scomparire. Questo modo di fare letteratura, però, impedisce di conoscere a fondo la realtà, la cui essenza si nasconde nel bosco, nelle zone limite dove nessuno osa addentrarsi perché in cerca di comodità:
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Troppi si immergono senza sapere nulla, puntano alle profondità senza capire come sono fatte, le correnti, le formazioni, le creature, come sono i fatti mostrati, certissimi dei propri strumenti vetusti; c’è però chi sa andare a fondo, già pregusta il momento in cui sentirà il suo peso sulle ginocchia, l’elasticità dello slancio, la trionfale spinta verso l’alto, l’aria nuova.
Immergersi nel bosco
Cosa fare, allora, per addentrarsi nella profondità delle cose? Come l’astronomo dilettante Fiorentino Acunzo bisogna prendere consapevolezza del fatto che «gli antichi miti sono esausti». Le storie prima o poi scompaiono lasciando «artificiose deludenti deluse memorie» che non lasciano nulla della ricchezza del nostro vissuto. Una chiave di lettura in questo senso ce la dà il piccione protagonista di Canalizzare il piccione:
Così lentamente scomparendo mondo. Prendendo a modello una storia in cui si prende a modello una storia, sull’eredità puntando sulla gioventù contando. Quando confrontati, eroicamente negando le apparenze.
Di fronte a un mondo destinato prima o poi a scomparire, ma che vive attraverso la nostra esperienza, il piccione di Vangone ci insegna che per rinnovare il modo di narrare una storia bisogna prendere il vecchio e arricchirlo di prospettive inedite. Nel racconto Nella grotta, per esempio, ci viene presentato il mondo del lavoro attraverso dei capi gamberetti che con gli spilli minacciano i lavoratori e li sfruttano, mentre Spingere la luna racconta lo scorrere del tempo attraverso una Fiat Panda, e infine Guardare il sole racconta gli effetti dell’isteria collettiva attraverso una fontana con i pesci coi piedi.
Tutti questi racconti, chi più e chi meno, «rifiutano di cancellarsi – cancellano i propri rifiuti» e «costruiscono un’argomentazione, una dichiarazione un punto di vista una comunità degli introiti, l’ingresso in un mondo che si espande su sé stesso, sul suo nulla, non c’è più nulla da dire, è stato tutto detto, analizzato, strappato» e di conseguenza ci mostrano «i brandelli, tutti uguali ma variopinti» di una realtà e di una quotidianità all’apparenza sempre uguali a se stesse.
Presa, quindi, consapevolezza che prima o poi tutto si annulla e che sotto certi aspetti non si può inventare più nulla, i personaggi di Vangone prendono semplicemente i rifiuti di ciò che resta e li mettono in scena mostrando come, nel loro essere variopinti, in realtà mostrano un mondo che in fondo è sempre dinamico e diverso in ogni sua versione.
Un bosco di voci e moltitudini
Sebbene sia un’opera strana, inafferrabile e molto probabilmente non adatta ai palati mainstream, Bosco (acquista) è un’opera da tener d’occhio per un semplice motivo: nella sua brevità e stranezza ci mette di fronte alla crisi della narrazione, dove ormai è già stato tutto detto e scritto, dove ogni libro ci propone uno sguardo sul reale monotono, riciclato e che spesso cade nel banale. Vangone, però, azzarda con la forma e il linguaggio, si mette alla prova e dimostra che, sebbene alla fine sia tutto uguale a se stesso e destinato a scomparire a causa di questi tempi consumistici, ciò che fa la differenza è lo sguardo e il modo di comunicarlo, l’unica cosa che rende variegato il quotidiano che viviamo e che lo rende sempre nuovo e mai scontato.
Solo definizione, senza definizione. Senza gioco: giocare non si può, l’immersione è una cosa seria. La corrente spinge. Dove? Un cammino indefinito. LA GRANDE DISTANZA. il percorso minuscolo […] Il corso ricorsivo. L’avanzata temeraria. Gli occhi non si aprono. Troppa pressione. Anche quando si può decidere si va a tentoni. Il punto di vista, non visibile: asciutto, limitato – non sei onnisciente, non vedi, la materia prende forma lentamente attorno a te, si sedimenta lungo la tua coscienza, un delta limaccioso – pervaso, alterato, istruito dalla violenza della corrente.
Antonio Vangone, Immersione, da «Bosco»
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