Una sommità di fessure del tempo passato

«Hypsas» di Valerio Mello

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Hypsas

Se c’è un’immagine che ben sa rappresentare lo scorrere del tempo, è sicuramente quella del fiume. Non un fiume particolare, però, ma quello di Hypsas, fiume antico che passava per la Sicilia Occidentale, ovvero l’attuale Belice. Nelle monete del tempo, Hypsas era spesso rappresentato con un giovane e un serpente che si avvolge attorno a un altare, quasi a indicare la ciclicità del tempo e della morte.

Hypsas è anche il titolo dell’ultima raccolta poetica di Valerio Mello, poeta agrigentino trapiantato a Milano da anni. Pubblicata dall’editore romano Ensemble nel 2024, Hypsas continua idealmente il discorso intrapreso dalla raccolta precedente Rive, dove, a differenza di un viaggio fisico, qui si compie un viaggio nella memoria del lutto seguendo il filo rosso del valore memoriale della scrittura.

Il contenuto delle poesie di «Hypsas»

«Incontro i morti sui margini dentati delle foglie,/ospiti e pietrisco più brillanti – centellinando le veglie,/perché i nomi vanno incontro a ciò che si ripete;/e il sole di Eraclito è nuovo tutti i giorni». Così inizia Hypsas, con un io lirico che si imbatte nell’assenza/presenza della morte in ogni luogo che frequenta, in ogni nuovo giorno. Fra vita e morte non c’è differenza: «Usiamo la stessa lingua, e nessuna lingua appartiene alla vita/o alla morte».

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L’io lirico avverte la necessità di dialogare con la morte in quanto parte dell’esperienza umana, qualcosa che come il serpente di Hypsas si ripete ciclicamente e inesorabilmente. Allora parte per l’io lirico la ricerca di un nuovo linguaggio, quello della memoria, fatto non soltanto di parole, ma anche di immagini, un linguaggio che supera sia la vita che la morte creando un tempo sospeso in cui tutto sopravvive, anche quando la ciclicità del tempo rischia di spazzarlo via.

Il filo conduttore della memoria fra «Rive» e «Hypsas»

Come si preannunciava prima, Hypsas costituisce un prosieguo ideale sul tema della memoria iniziato con Rive due anni prima. Come dimostrano i seguenti versi, anche in quest’ultima raccolta c’è una ricerca da parte dell’io lirico di trovare un modo per riempire il vuoto lasciato dal proprio passaggio nei luoghi in cui abbiamo vissuto, che rischiano come ogni esperienza umana di scomparire a causa dello scorrere del tempo:

Questa mappa è un sogno che si ripete.
Non sempre riesco a ricordare i sogni.
Forse il posto di questo momento è unico e la grandezza del
suo vissuto è la prova che il posto esiste.

Questo tentativo di fare una mappatura dei propri sogni e ricordi si fa più estremo in Hypsas, dove da registrare non vi sono soltanto i luoghi che fanno parte della nostra vita, ma anche la morte e l’essenza racchiusa nella realtà circostante. Riprendendo le parole di Rive, Mello cerca di «spostare dentro il fuori», di ridurre la distanza fra «l’anima e il suo resto» attraverso l’intermedialità e anche la disposizione grafica dei versi, che cercano di riprodurre i movimenti dei luoghi e dunque dell’anima e della morte.

L’infinito allungarsi del nunc nella natura

Ridurre la distanza fra anima e il resto significa avvicinare il proprio io alla realtà circostante, alla natura, captarne ogni movimento passato e presente per far sì che la nostra presenza e assenza sopravviva nel tempo, e dunque per far sì una dimensione passata e una presente possano coesistere nello stesso luogo. Per l’io di Valerio Mello la natura non è altro che un infinito nunc, ovvero un eterno ora che, però, cancella le tracce di ciò che è passato e non ritorna più:

la natura come un infinito allungarsi del Nunc.
Dalla vista del papavero…udirlo, il viaggio felice.

Quale dio in cui smarrirsi, quale senso del fluire,
circondante…Si è a un passo dal fondo dei volti

(e crescono le stanze natanti), il cielo cammina
sopra le voci, tintinnando

Sebbene, però, «sulla via soffia la giovinezza dei semi,/il vento dopo il vento», l’io lirico percepisce comunque la presenza di qualcosa che va ascoltato, ovvero la morte. L’io, infatti, percepisce «la cenere fra le piante fiorite», la terra che «si allunga nell’odore di macigni, lente esequie masticano solitudine», un teatro «ricoperto di terra» con «strati smisurati. Sedili putrefatti». Lo scorrere del tempo, dunque, lascia macerie di ciò che è stato, segni di una morte che resta nascosta e non emerge perché con lo scorrere dei giorni affiorano soltanto i segni di una nuova vita.

Tuttavia, come osserva l’io lirico «spesso i morti s’inoltrano/negli stessi posti» e «tutti gli abitanti morti esistono». La morte, dunque, esiste anche se non è visibile, in quanto il «passare è in agguato». Lo scorrere del tempo si porta via con sé da un momento all’altro ciò che faceva parte del nunc e che presto diventerà passato rimuovendolo del tutto dal ciclo della vita, e spetterà dunque all’io sottrarre le tracce dell’esistenza passata all’oblio del tempo.

«Hypsas», viaggio di ritorno attraverso la scrittura

Ed è qui, allora, che entra il gioco il fiume Hypsas, un fiume «dal volto interminabile», che «entra, non entra nella vita», un viandante del tempo che non ha intenzione di fermarsi nella vita presente e che si porta via ogni cosa senza lasciare la possibilità di lasciare un segno indelebile nei luoghi per dare una conferma della propria esistenza sulla terra:

Hypsas, viandante,
si dispera in rivoli e si compie
indisturbato come rarefatta
meraviglia.

Hypsas è una sommità di fessure,
simulacro che la terra
macina, selva
di cadaveri
inquieti nel meriggio di nettare.
Il dio fiume sa che
si apriranno i sacri recinti
e da nessun tempo gronderà sangue.

L’io lirico trova nella scrittura il modo per fermare il fiume del tempo di Hypsas attraverso un viaggio controcorrente nel «tempo dell’acqua/che conduce,/il trasporto dei cunicoli e/dei sentieri sotterranei» con «un racconto che non s’impone,/ e narrare senza limite,/ mentre la narrazione/ si riempie,/ mondo-nel-mondo,/ mondo-da-sempre». Allo scorrere del fiume si frappone, quindi, lo scorrere della scrittura in un fluire continuo di pensieri e parole che ingloba tutto quello che può inglobare fra immagini, parole, luoghi, ceneri e rovine. Nella scrittura rientra il mondo di ieri ma anche quello di oggi e quello che sarà.

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Nella totale immersione fra scrittura, mondo e memoria, l’anima trova la sua esistenza, diventando «l’avvento del tratto mai cancellato», ovvero l’esistenza di qualcosa che, anche se nasce e muore, persiste sempre nella nostra memoria e nello sguardo di un passato che è anche ritorno, di un’assenza che si ripresenta sotto nuove forme per poi scomparire di nuovo, ma di cui sappiamo che continuerà l’esistenza perché continuerà a esistere la parola dell’io lirico simile al canto del «merlo più caro che si affida alla scrittura» che commemora il tempo che fu facendo oscillare la memoria fra passato e presente.

«Hypsas», la memoria che vive da sola sotto la cenere

L’io lirico di Hypsas (acquista) è un viandante che non solo deve fissare nella memoria i luoghi della sua vita, ma anche le tracce della loro esistenza corrosa dal tempo e destinata presto a diventare cenere. Al fiume inesorabile di Hypsas con la sua ciclicità cannibale che nega il passato e così facendo nega il futuro, si contrappone una scrittura memoriale che fagocita il mondo passato e quello presente rendendo possibile un futuro in cui il tempo del nunc, cioè dell’ora, può convivere con ciò che non si vede e che ha bisogno di essere ascoltato e accolto in quanto parte dell’esperienza umana.

Tutto è certo
nelle rovine,
questo nome
di bianco, questo
nome di albero.
Ora che i nomi
sono capovolti,
strappati.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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