Evocare una madre svanita nel nulla

«La paura ferisce come un coltello arrugginito» di Giulia Scomazzon

6 minuti di lettura
«La paura ferisce come un coltello arrugginito» Giulia Scomazzon

«Devo provare a scrivere qualcosa su mia madre» è la frase con cui Giulia Scomazzon inizia a scrivere La paura ferisce come un coltello arrugginito, edito da Nottetempo e vincitore del Premio Bagutta Opera Prima 2024. 

Un incipit che ricorda Bagai di Samuele Cornalba – «La mattina del 5 febbraio 2007 Elia grida a sua madre che la sciarpa che gli ha regalato fa schifo, e la madre di Elia muore» – o Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini – «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.» – per i toni intensi e liberatori. Unica differenza: la madre dell’autrice appare a tratti sfocata e a tratti incredibilmente magra e malata.

Un po’ come Zeno Cosini, Giulia inizia a scrivere questa storia su suggerimento della psicologa Lucia per mettere su carta tutti i ricordi che ha della madre (spoiler: pochissimi).

«La paura ferisce come un coltello arrugginito»: la trama

Il filo che unisce Giulia e Roberta si è spezzato inesorabilmente nel 1995, quando l’autrice ha otto anni, a causa di un male terribile in quegli anni senza terapie efficaci: l’AIDS. Suo padre e sua nonna non le hanno mai detto il motivo per cui sua madre è morta quando era molto piccola, ma quella protezione da parte dei familiari causa in Giulia un trauma: il lutto mai elaborato, la rimozione dei ricordi – in particolare quelli in cui riconosce di essere amata – e, insieme, la capacità di dire “ecco, mia madre era fatta proprio così”. Questo segreto della famiglia di Giulia, però, fa parte di un mosaico più grande: il silenzio della società e la disinformazione rispetto a tutto ciò che riguarda l’AIDS

La madre di Giulia lavorava in fabbrica, preparava torte nel fine settimana, aveva fatto uso di eroina da ragazza per poi smettere. Ma secondo la società era una tossicodipendente. È per questa intima necessità che Giulia Scomazzon decide di scrivere di lei, adesso che ha superato l’età della madre quando è morta, prima in un blog e poi in questo romanzo, per abbattere il silenzio sociale attorno agli anni Settanta e Ottanta – e che, ancora oggi, fa parte della narrazione della malattia – e restituire giustizia ai tanti dimenticati come Roberta.

Leggi anche:
Il gioco della composizione

L’autrice costruisce La paura ferisce come un coltello arrugginito (acquista) mettendo insieme fatti storico-politici e tumulti personali, senza tralasciare il peso della vergogna dello Stato, delle tante famiglie coinvolte. Sembra quasi che quel coltello arrugginito stia rigirando nel cuore del lettore, mentre l’autrice riflette sulla sofferenza materna:

Otto anni di convivenza con una condanna a morte senza impazzire, senza tormentare gli altri con la propria paura di impazzire. Nessun testimone, né mio padre né i miei zii, ricordano di averla vista sul punto di perdere la ragione […]. Mia mamma ventenne, operaia, casalinga e paziente del reparto malattie infettive, come un enorme scoglio nell’oceano che nessuna onda può abbattere. Di me nessuno potrebbe dire una cosa simile. La mia consistenza è più simile a quella del legno che a quella della roccia, i flussi d’acqua mi corrodono e mi deformano, mi trascinano in posti che non conosco.

Il ruolo della memoria

L’indagine dei ricordi parte dalla memoria che ha di Roberta, ma Giulia non sa andare oltre a qualche immagine o flashback. Dunque serve autenticità: si rifugia tra le foto, le ricette e due lettere spedite ad Andrea, ed è proprio al padre che Giulia chiede di scrivere una lettera in cui parla di Roberta.

Mi sono detta che al mio rientro avrei ringraziato mio padre per le sue parole, che gli avrei detto che anch’io ero grata alla mamma per avermi lasciato lui, che quell’ultima frase – Da giovane lavorò in fabbrica tutta l’estate per comprarsi una chitarra che non avrebbe mai imparato a suonare – era così bella che l’avrei riscritta alla del libro per concludere la storia di mia madre con un’immagine fragile e, allo stesso tempo, forte, come dev’essere stata lei alla fine dei suoi vent’anni.

Il potere della scrittura è quello di dare vita: a persone, dolori, sogni, speranze. Sì, è facile credere nella scrittura come forma di difesa, ma può essa risanare un lutto? Può ridare vita a proprio passato? 

Un romanzo consigliato a chi nell’amore materno ha sempre trovato riparo, dedicato a chi attraverso il ricordo prova a superare la paura del passato. Giulia Scomazzon prova a chiedere un risarcimento alla memoria di una madre che continuerà a cercare: «Non so evocare una donna svanita nel nulla, non so immaginare e non so neppure ricordare, perciò non posso scrivere se non per me stessa, senza la pretesa di consegnare al mondo un ricordo o un monito a non scordare».

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Serena Votano

Serena Votano, classe 1996. Tendenzialmente irrequieta, da capire se è un pregio o un difetto. Trascorro il mio tempo libero tra le pagine di JD Salinger, di Raymond Carver, di Richard Yates o di Cesare Pavese, in sottofondo una canzone di Chet Baker, regia di Woody Allen.

Lascia un commento

Your email address will not be published.