Ormai da qualche tempo si può dire che anche in Italia sta venendo fuori a poco a poco una specie di letteratura di melting pot, una letteratura in cui ritroviamo scrittori giovani che si confrontano con due culture diverse: la loro cultura di origine e quella italiana. Di esempi se ne possono fare tanti, da Elvis Malaj ad Andreea Simionel passando per Nikolai Prestia, Sabrina Efionayi ed Espérance Hakuzwimana: tutti che raccontano la propria esperienza cercando di far dialogare prospettive differenti.
In questa giovane letteratura di melting pot, che segue le orme di autrici già affermate come Igiaba Scego e Gabriella Kuruvilla e che di questo tipo di letteratura sono state delle antesignane grazie all’antologia Pecore nere (Laterza, 2010), si può annoverare sicuramente Mohamed Maalel. Precedentemente analista del programma Rai TV Talk e giornalista presso il «Giornale di Sicilia», Maalel ha recentemente debuttato per i tipi di Accento Edizioni con Baba.
«Baba»: la trama del romanzo
Come lascia immaginare il titolo, Baba sembra essere la storia di un padre, Taoufik – “baba” in arabo significa, appunto, “papà”. In realtà, è la storia di un figlio che proprio nel rapporto con il padre cerca se stesso. Il figlio si chiama Ahmed Maalek – un nome simile a quello dell’autore, ma ci si tornerà dopo –, e la sua particolarità è vivere fra due culture diverse: quella musulmana e tunisina del padre; quella italiana – pugliese, per la precisione – della madre:
Ahmed, che in arabo significa lodatissimo. Ero lodato nonostante riuscissi solo a piangere. Ahmed è il sinonimo di Muhammad, il nome del profeta tanto rispettato dai musulmani, e mio padre aveva deciso di chiamarmi così per evitare che nella sua famiglia ci fossero troppi Muhammad. Mia madre avrebbe voluto chiamarmi Marco, mia nonna invece Ventura, come il suo defunto marito. «Mio figlio musulmano no può chiamare come cristiani» aveva tuonato mio padre. Marco è un bel nome, ordinato e educato; Ahmed ti offre il fascino dell’etnico, l’idea di mille viaggi tra deserti e cammelli. Quel nome mi avrebbe potuto offrire varie possibilità di interazione in un futuro non troppo lontano, ma questo mio padre non poteva saperlo. Ahmed era però anche un nome problematico, un segno di responsabilità che avrei conosciuto solo diversi anni dopo.
Diversi anni ci vogliono ad Ahmed per conoscere veramente se stesso. L’occasione si manifesta attraverso il proprio padre, che ricoverato in ospedale chiede di rivedere il figlio un’ultima volta, quello stesso figlio che tornerà a ritroso fra i ricordi del passato, fra un piatto di riso patate e cozze e uno di cous cous, i tentativi di imparare l’arabo, i viaggi in Tunisia e l’accettazione conflittuale della propria omosessualità, per trovare un luogo che possa definirsi casa.
Tra autofiction e romanzo di formazione
Come già preannunciato, il nome del protagonista nasconde delle analogie con il nome dell’autore. Se da un lato, infatti, Ahmed è sinonimo di Muhammad – la cui variante è Mohamed –, Maalek, invece, differisce con il cognome dell’autore per la lettera finale. Altre corrispondenze fra i due non sono soltanto il padre di origini tunisine, ma anche la città di provenienza, vale a dire Andria, e la collaborazione presso un giornale in Sicilia.
Si può quindi definire Baba un romanzo di autofiction, cosa che già Nicolò Bellon nel suo articolo-intervista su «Lampoon Magazine» ha sottolineato e che Maalel ha confermato con le seguenti parole:
Ho perso mio padre lo scorso anno a febbraio. Dopo due settimane ho iniziato a scrivere. Può essere considerata autofiction, perché prende spunto da gran parte del mio vissuto. Ho utilizzato Ahmed, e non il mio nome, per poter raccontare questa mia storia andando a riflettere su ciò che mi è successo senza cascarci troppo dentro. Con Ahmed mi sono allontanato da me stesso. Senza di lui, forse, avrei raccontato una storia a metà.
Leggi anche:
Andreea, la vergogna di un pesce nello stivale
Mohamed Maalel, dunque, ha creato un altro da sé per raccontare la propria vita. Lo ha fatto, però, raccontando il tutto al passato e mantenendo la giusta distanza da quanto narrato. Così facendo, l’esercizio di memoria che Ahmed esegue gli permette con il giusto distacco di avere una consapevolezza piena della propria identità e a comprenderla meglio.
Un racconto a più identità
Ahmed comprende, quindi, come la sua sia una storia di più identità, che sia il suo nome – Ahmed, Ahmouda per il padre, Moemi per la famiglia materna –, la sua identità sessuale e anche quella culturale. Il discorso sull’identità parte innanzitutto dalla lingua:
In famiglia le lingue convivevano tacitamente: non era raro sentire mia madre parlare in pugliese e mio padre risponderle in arabo. È per questo che già a tre anni facevo confusione: dovevo chiamarlo baba o papà?
Ahmed nota fin da subito il pot-pourri linguistico della sua famiglia, ben rappresentato – ed è questo uno dei grandi pregi di Baba – nei dialoghi, con suo padre che si inventa il suo linguaggio, un misto di italiano, tunisino e pugliese definito “minsh normal”, sua nonna Raffaella che parla in italiano sbagliando tempi verbali e pronunciando scorrettamente le parole, e la sua famiglia materna che alle volte parla in pugliese. In tutto questo Ahmed realizza di essere «l’unico a non ritenere suo né il tunisino né il pugliese», arrivando, dunque, come il padre a inventarsi a cinque anni un suo vocabolario immaginario.
Leggi anche:
Geografia sentimentale della Somalia
La commistione di lingue non è il solo punto in comune con il padre: lo è anche il nome. Se su Ahmed ci si è già espressi prima, su Taoufik si può dire che in famiglia viene chiamato Martino «perché Taoufik suonava troppo strano». La problematica del nome acutizza ancora di più il fatto di possedere un’identità profuga in cui nella diversità sia Ahmed che Taoufik si ritrovano simili. Se però Taoufik si sente profugo solo in Puglia, Ahmed si sente profugo sia per la cultura tunisina che per quella italiana, ma anche per la sua sessualità, vissuta da sempre in maniera conflittuale.
Fare memoria, fare storia
Paradossalmente, il sentirsi profugo permette ad Ahmed comunque di far proprie le culture e le identità che abita. In un certo senso, Ahmed fa quello che Carmine Abate definiva «vivere per addizione». Il protagonista non nega i legami famigliari, non recide il rapporto con la terra d’origine di suo padre, e accetta la sua omosessualità. Decide di accogliere la sua diversità e pluralità e di farne il suo punto di forza, la condizione necessaria per esistere in quanto Ahmed:
Comprendevo, con un ritardo che accelerava le distanze, che la famiglia è tutto ciò che più si allontana dall’idealizzazione. Ho costruito un’immagine familiare conveniente a certi standard qualitativi, lasciando da parte i difetti di fabbricazione. Ma una famiglia è spesso composta da singoli difetti che unendosi provocano un cortocircuito inarrestabile, in cui ogni filo scomposto è parte di un insieme che se fallisce lo fa senza mai separarsi. Avevo due famiglie: era arrivato il tempo di un racconto a più identità.
Sebbene Taoufik sia stato un padre alle volte duro, Ahmed non si limita solo a ricordare i momenti felici passati con lui, ma anche quelli meno felici, come il fatto di mangiare di nascosto panini al prosciutto oppure l’essere costretto a frequentare la scuola coranica. Questo perché «fare memoria era fare storia: non si può fare storia se smetti di ricordare».
È questo, allora, il motivo per cui Taoufik chiama suo figlio e lo vuole con sé all’ospedale, ed è per questo che, per far contento il padre, Ahmed fa l’Erasmus in Tunisia: perché un’identità è fatta di memoria, di radici vicine e lontane, ricordi felici e tristi necessari a far pace con le proprie contraddizioni e ad accettarsi per quel che si è.
Un tassello per unire due mondi
«Le origini sono le casualità dolciamare che ci hanno sospinti qui e là. Sono un’appartenenza che abbiamo e basta, senza aver fatto nulla per conquistarla». Così scriveva Saša Stanišić in Origini (Keller, 2021), e a questa stessa consapevolezza approdano Mohamed Maalel e Ahmed Maalek – due facce della stessa medaglia, dopotutto – in Baba (acquista). Le nostre origini e la nostra identità sono un’appartenenza che ci sono state affibbiate dalla nascita: è inutile cancellarle e recidere i legami col passato.
Tutto ciò che abbiamo vissuto e abbiamo ereditato, nel bene e nel male, ci permette di esistere, e Mohamed Maalel riesce a raccontare la multiculturalità senza retorica e moralismi, ma con l’ironia e la malinconia di chi ha capito che casa, dopotutto, è il ricordo di questa pluralità di radici, che spesso ci hanno fatto sentire esclusi, ma che ci hanno reso quello che siamo oggi e che saremo nel futuro.
Mi chiamavi Ahmouda, e sapevo di potermi fidare di te. Vivevi una doppia coscienza e io ero il tassello che univa i due mondi in cui transitavi. Uno dei due era invivibile, ma da una gabbia non si può uscire senza avere le chiavi. Baba, mi hai permesso di crescere nel modo in cui sono oggi. Ogni volta che qualcuno mi sorride, ogni volta che qualcuno dice che mi vuole bene io penso a te. Perché spesso un figlio è la fotografia di un padre, solo in risoluzione più alta. Ti ho pianto quando sei andato via, rileggo la tua memoria nel mio corpo.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!