Quello fra scienza e letteratura è da sempre un binomio perfetto. Ne sapeva qualcosa Primo Levi, che ha usato il suo mestiere di chimico ne Il sistema periodico (1975) per raccontare la vita in ogni sua sfumatura. Il «poeta ingegnere» Leonardo Sinisgalli, invece, coniugava perfettamente la sua formazione scientifica con la cultura umanistica per creare nuovi mondi possibili attraverso il linguaggio. «Come un ragno», scriveva in Infinitesimi (2001), «costruisco con niente, / lo sputo la polvere, / un po’ di geometria».
Fra questi autori si può inserire tranquillamente Veronica Galletta, ingegnera e scrittrice che l’anno scorso si è aggiudicata il Premio Campiello Opera Prima con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni). Lo scorso ottobre, però, è tornata in libreria per i tipi di minimum fax con Nina sull’argine, un romanzo in corsa per il Premio Strega 2022, che prende spunto dalla sua formazione per raccontare il mondo del lavoro, una realtà in cui spesso bisogna fare compromessi mettendo da parte i propri ideali.
La trama di «Nina sull’argine»
Nina sull’argine ha per protagonista Caterina Formica, la Nina del titolo. Ingegnera civile di origini siciliane, alla protagonista sono stati affidati i lavori di un argine in Piemonte nel paese immaginario di Spina, frazione di Fulchré; «un piccolo comune disperso nella pianura alluvionale, lontano da raggiungere», immerso nella nebbia e dove «l’acqua si riprende sempre quello che è suo».
Il lavoro di Caterina al cantiere si rivelerà presto una faccenda complicata. La donna si troverà in difficoltà non solo per problemi procedurali e ambientali, o le proteste degli abitanti contrari alla realizzazione dell’opera, ma anche perché dovrà confrontarsi con i propri fantasmi. L’amore finito con Pietro, la lontananza dalla Sicilia, ma anche le morti sul lavoro di cui verrà a conoscenza la metteranno di fronte a una realtà diversa da come se l’era immaginata, in cui ogni scelta non sarà mai quella giusta, ma sarà necessaria per andare avanti.
«Nina sull’argine»: il cantiere come metafora di scavo interiore
Con Nina sull’argine, Galletta approda a una dimensione meno letteraria e fantastica rispetto a Le isole di Norman, in cui la letterarietà era molto forte. Questo nuovo romanzo, invece, ha un’impronta più realista: come affermato più volte dall’autrice in varie interviste, il suo intento qui è quello di raccontare il mondo del lavoro.
Come ne Le isole di Norman, però, anche in questo nuovo romanzo abbiamo una narrazione in terza persona e un alternarsi di piani temporali passati e presenti. Se nel caso di Elena – la protagonista de Le isole di Norman – il confronto con il passato è funzionale ai fini della riappropriazione dei propri ricordi, qui Nina guarda al passato per fare introspezione e venire a patti con sé stessa e ciò in cui credeva.
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Per usare le parole di Orazio Labbate nella sua recensione al romanzo pubblicata su «La Lettura» il 3 ottobre 2021, Nina è:
Una donna costretta a combattere contro sé stessa, contro la spietatezza della responsabilità, contro i suoi obiettivi di una vita e contro la sua identità sentimentale dentro un lavoro lontano dalla sua emotività in cui l’argine del fiume è metafora dei confini da provare a superare per porsi al di là del mondo e degli uomini.
L’idea di confine e superamento resta centrale anche in questo caso. Se ne Le isole di Norman si trattava di superare un trauma passato attraverso il confronto e la ricostruzione della memoria, di cui le mappe erano metafora, in Nina sull’argine il cantiere e l’argine per Nina sono, invece, motivo di un’introspezione difficile, ma necessaria, per superare una consapevolezza dolorosa, ovvero l’idea che «il mondo non è reversibile», e ciò che conta è andare avanti, anche a costo di commettere una scelta sbagliata di cui comunque resteranno le tracce:
Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.
Le tracce del passato di Nina
Quest’ultimo brano dimostra bene come i luoghi attraversati da Nina siano pieni di tracce o elementi che richiamano al passato, il cui confronto è per la protagonista necessario per riappropriarsi di sé stessa. Una prima avvisaglia di questa lotta contro di sé si manifesta quando Nina discute con il signor Musso sui fiumi:
O forse è sé stessa che non tollera, il ruolo che adesso si ritrova a interpretare, che la tiene così lontana da tante cose in cui ha sempre creduto, che la costringe a osservare tutte le sfaccettature di una questione, alla ricerca di una impossibile sintesi, in cui tutti sono liberi, tranne lei. Così si guarda attorno, e si astrae.
In ogni punto di Spina, quel paesino il cui nome «viene da sebber, che in piemontese significa tinozza», Nina si sente imbrigliata nei ricordi del passato, tra cui il suo rapporto con Pietro. La sponda bucherellata del fiume, per esempio, ricorda la spiaggia greca dove ha trascorso le vacanze con l’uomo. Quest’ultimo, inoltre, le riappare in visione vicino a un vecchio guardrail.
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Ciò che tiene prigioniera Nina è anche l’idea di casa. L’uomo all’interno della buca è un personaggio emblematico in questo senso. Siciliano come lei, l’operaio le risveglia il ricordo di casa parlando di piatti e cibi dell’isola come le zeppole, i totò e la parmigiana. La casa di origine di Nina, la Sicilia, è tuttavia un posto dove «non ha lasciato niente. Né vestiti, né libri, né ricordi», perché «lei è una che ha scelto».
È proprio a partire dalla casa che comincia il cambiamento della protagonista, il luogo in cui il passato smette di intromettersi nel presente di Nina. La donna deciderà di disfarsi degli oggetti appartenuti al compagno, di rimbiancare di nuovo le stanze, di cambiare posizione ai mobili. Tuttavia, «non sa se ha fatto bene», pensa Nina, «se è stata la decisione giusta. È cosciente che le ombre sono rimaste, sotto lo strato di tinta candida nella quale adesso si specchia. Non sa neanche se la rispecchi davvero, tutto questo candore».
Nina: governare o subire il movimento
Nina sa che «il movimento è sempre meglio governarlo che subirlo». Per farlo, però, deve troncare ogni rapporto con i fantasmi del passato, ma anche con i dubbi che la attanagliano, come se nella sua testa vivesse «un’altra Caterina», che vorrebbe farla ragionare sulle conseguenze che potrebbero avere le sue scelte, compreso quell’argine che potrebbe portare a poche tutele per gli altri operai:
Le sta per arrivare una crisi. È colpa dell’altra Caterina, che non la molla mai. È per colpa sua che Caterina non replica. Non dice niente. Non esplode. Sarebbe anche in grado, ma per ogni cosa che fa c’è sempre l’altra a dubitare. Appena una agisce, l’altra deve sindacare. Mentre una parla, l’altra in sottofondo commenta. Certi giorni Caterina è così stanca.
Nina intraprende un percorso in cui prova quello che Christa Wolf definì nelle Premesse a Cassandra «dolore di farsi soggetto». La protagonista riesce a emanciparsi dai suoi fantasmi, a «governare il movimento», ma il prezzo da pagare è doloroso. «Il segreto per fare le cose dolorose», pensa, «è farle come se riguardino la vita di qualcun altro», perché «andare avanti significa sempre un po’ tradire. Qualcuno, qualcosa, sé stessi».
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La donna deve scendere a compromessi con un presente pieno di zone d’ombra, dove ogni cambiamento spesso non porta a benefici e prevalgono gli interessi dei più. L’argine danneggerà l’ambiente circostante, i racconti delle morti bianche degli operai in nero continueranno a esserci, ma per vivere Caterina deve scegliere, e questo significa rinunciare a ogni compassione e a ogni ideale.
Il mondo non reversibile di «Nina sull’argine»
Nina sull’argine (acquista) è un ritratto lucido e spietato di una realtà dove per sopravvivere bisogna sacrificare ogni valore, sentimento e ideale. Quella di Nina è la storia di chi trova difficile prendere delle decisioni: ogni nostra scelta è un tradimento verso gli altri e se stessi. Bisogna prepararsi a scendere a compromessi con quelle zone d’ombra che precludono la possibilità di un mondo più giusto, e pagarne le conseguenze, in quanto il mondo non è reversibile.
Forse è questo, crescere: capire che i fenomeni non sono reversibili, che ogni traccia lascia un’impronta. Che esiste una fatica, come nei materiali, e la fatica è un fenomeno pericoloso, dal quale bisogna preservarsi. Lo stesso materiale, sottoposto a carichi variabili nel tempo può arrivare a rottura, a cedimento per fatica, pur restando all’interno del suo limite di elasticità. Caterina guarda gli isolatori, osserva i flessimetri vibrare, e di colpo si sente stanca, tremendamente stanca.
Bibliografia
Orazio Labbate, Il primo cantiere non si scorda più, «La Lettura» – Corriere della Sera, 3 ottobre 2021
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