Sentire di appartenere a nessun luogo ma amare follemente la montagna. È attraverso questi sentimenti che conosciamo Beatrice, una strangera nell’immaginaria valle della Becca, la protagonista del romanzo La strangera di Marta Aidala (Guanda Editore, 2024).
Dopo anni di scalate, vette vissute come sfide, brevi periodi a osservare il mondo da “lassù”, Beatrice ha scelto di lasciare tutto – Torino, gli studi, la famiglia e gli amici – per andare a lavorare nel rifugio del Barba e cercare le risposte a questo suo senso d’inquietudine stretto nello stomaco.
Una stragera alla ricerca del proprio futuro
In montagna nessuno fa domande. Si preferisce guardare, aspettare, e le risposte trovarsele da soli. Io invece volevo sapere tutto subito, faticavo ad avere pazienza.
Al rifugio del Barba – un uomo che, al contrario del nome, non ha barba o capelli in testa – il tempo lo scandiscono i pasti, gli ospiti, le chiamate a cui Bea deve rispondere subito per prendere le prenotazioni, le sigarette che gira tra una pausa e l’altra, in una camerata da condividere con gli altri del rifugio che – a differenza sua – sanno esattamente cosa vogliono dal futuro. Per i suoi colleghi quel lavoro è soltanto una parentesi. Per Beatrice quel lavoro stagionale è un tentativo per mettersi alla ricerca del suo futuro. E spera di trovarlo sulle montagne che «sono donne immense, eppure tante portano nomi di uomini». È il richiamo della natura.
Al rifugio si sente respinta perché strangera, perché fumna, perché intrepida come la città da cui è fuggita e di cui non parla a nessuno. Nemmeno a Elbio, il malgaro di cui si innamora. Due mondi che più diversi non potrebbero essere. Attraverso lui impara ad amare quei luoghi tanto da decidere di continuare a lavorare al rifugio anche dopo l’estate.
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La rabbia di Bea
I genitori di Bea, in particolare la madre, non ha mai accettato il fatto che lei abbia scelto di mollare l’università – a un passo dalla laurea – e sia andata in montagna a lavorare in un rifugio. Ciò che non comprendono è che Bea in città era rimasta incastrata in un imminente futuro che non aveva mai desiderato e allo stesso tempo a cui non si era mai opposta.
[…] mi era tornato in mente il principio della rana bollita, letto mentre studiavo per un esame dell’università. Non ricordo la materia, ma quel breve trafiletto mi era rimasto impresso, inciso addosso.
Una rana nuota tranquilla in una pentola d’acqua fredda. Sotto la pentola c’è un fornello con il fuoco acceso e l’acqua comincia a intiepidirsi. La rana rimane lì, a godersi quel piacevole tepore. Ma la fiamma continua a scaldare l’acqua, la temperatura sale ancora e la rana, seppure stia iniziando a soffrire il caldo, non si muove, non scappa. Quando la temperatura è ormai diventata insostenibile la rana non ha più le forze per saltare via, salvarsi, ed è destinata a morire bollita.
Le ultime forze per saltare via io le avevo trovate, nascoste tra muscoli e legamenti, però di ustioni ne avevo riportate parecchie. Sapevo che si stavano rimarginando ma quella pentola, oltre alle ferite, aveva fatto esplodere in me la rabbia. Una rabbia senza colpevoli e senza carnefici, che non aveva bersagli contro cui scagliarsi e si riversava addosso a chiunque.
La montagna però mi aveva domata.
Non riesce a superare il conflitto con la sua famiglia, con Torino, con quei ricordi che lasciano una sensazione di soffocamento. È nella calma piatta della Becca che Bea prova a fare pace con se stessa, a respirare e a ritrovare la libertà.
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Con l’arrivo dell’inverno Bea comprende che la montagna può essere tanto splendida quanto pericolosa. Impara a conoscere i suoi silenzi, a rispettare le sue regole, perché la montagna sa accogliere chiunque e tradire dopo un passo. E al massimo ci si può aggrappare, come i larici, sfidando la pendenza, per dimostrare di essere abbastanza forte. Ma se i rifugisti del posto sanno quanto può essere importante uno sguardo attento e un’informazione precisa, ad accettare gli incidenti, Bea no. E un episodio crea una frattura difficile da curare, spezza un equilibrio che Bea non aveva ancora considerato tale.
La Becca si stagliava di fronte a me con le sue guglie mozzate, su cui la presa bianca del ghiaccio aveva allentato gli artigli. Dal terrazzo del rifugio sembravano stringermi in un abbraccio che in quel giorno di nubi fosche si era trasformato in una morsa.
Qual è il confine tra casa e rifugio?
Qual è il nostro posto nel mondo? Ci si può sentire a casa in un posto in cui non si è nati ma si è “capitati”? E ancora, si può avere la certezza di essere a casa senza aver conosciuto altre case possibili?
Allora serve andare in alta quota, osservare tutto da lontano e nel silenzio cercare le risposte. Tuttavia quando arriva la neve è impossibile afferrare una dimensione: nasconde ogni certezza sotto il suo manto, sospende ogni scelta e impone il suo tempo.
Era dalla lettura del romanzo Le otto montagne di Paolo Cognetti che non si riusciva ad amare la montagna in modo completo, travolgente. La stessa autrice a diciassette anni si è innamorata delle montagne e il suo sogno è salirci per rimanere. Dopo i lavori più disparati ha frequentato la Scuola Holden e si è diplomata nel 2023.
Marta Aidala, 28 anni, facendo parlare la sua protagonista in prima persona, ricostruisce un micromondo. Una valle perfettamente realistica in cui il tempo segue un ritmo diverso e le notizie del mondo non riguardano la vita di quei montanari che ancora faticano a digerire l’esistenza di una strada.
I personaggi di questo romanzo sembrano sospesi nel tempo ma così ben descritti da sembrare vecchi amici salutati da tempo. O mai salutati come si deve. Chiuso il libro, si sentirà la nostalgia di quel posto mai visto e che nemmeno esiste – o meglio, esiste con altri nomi, altre persone –, ma vissuto intensamente.
La strangera (acquista) è un romanzo di formazione che tenta di sciogliere i nodi dei conflitti interiori di chi sente sempre di essere nel posto sbagliato, per reimparare la lezione fondamentale: nessun posto può essere casa, rifugio, finché non impariamo che fuggire non vuol dire fallire. Un libro consigliato a chi sente il bisogno della montagna, unica vera protagonista, nella sua essenzialità. Dedicato a chi ogni tanto ci pensa, e un po’ si perde in quei pensieri sconnessi, alle possibili vite che vorrebbe ma non sta vivendo.
Controindicazioni: tenere lo zaino da trekking lontano dalla propria portata, perché desiderare di riempirlo per scappare verso il primo rifugio verso le Alpi sarà inevitabile.