Un californiano con, sotto il braccio, un libro di grande formato

«Tredici storie e tredici epitaffi» di William T. Vollmann

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Tredici storie e tredici epitaffi

William T. Vollmann è alieno a tutto il panorama letterario. Ogni tentativo di etichettatura è inutile. Spesso si argina la sua opera attribuendola a un genere piuttosto che un altro, avendo così la vaga illusione di averlo definitivamente incasellato. Per capirlo si azzardano accostamenti, riferimenti ad altri autori (preferibilmente postmoderni) per renderlo parte di una generazione. Ma risulta tutto inutile. 

La battaglia di e per William T. Vollmann

Vollmann non è simile a nessuno, neppure vagamente. La sua voce è inequivocabile: si percepisce in ogni riga che scrive. Trattasi di racconti o anche di fugaci intuizioni, come accede, appunto, in Tredici storie e tredici epitaffi. Minimum fax, anche all’inizio di quest’anno, ci offre un altro volume del genio californiano finito fuori catalogo ormai da diversi decenni (pochi eletti, infatti, hanno ancora l’edizione Fanucci del 2005). Una battaglia che la casa editrice romana porta avanti da diverso tempo, tanto da portare addirittura Vollmann in Italia in più d’una occasione.

Chiunque abbia avuto la fortuna di sentirlo parlare, ne apprezza la conoscenza enciclopedica, ma anche la curiosità e l’incredibile capacità di adattamento. La sua è un’ironia rarefatta, consapevole, e anche quando il suo volto sembra adombrato dalle tragedie, si illumina parlando del teatro nō oppure delle opere che l’hanno reso uno scrittore. Sorprende nel sentirlo citare racconti come Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa piuttosto che Temporale d’estate di Pavese. I lettori italiani, d’altro canto, si rallegreranno nel leggere queste tredici storie con altrettanti epitaffi non di certo per le tematiche trattate, ma per vedere il cuore pulsante della letteratura.

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«Tredici storie e tredici epitaffi»: la storia come carro funebre

Ogni volta che si rilegge Vollmann si ha la precisa sensazione di non averlo mai abbandonato. La composizione di Tredici storie e tredici epitaffi sembra ricalcare il viaggio fisico e mentale de L’atlante. Certi racconti, come Il fantasma del magnetismo o Manette istruzioni dell’uso (quest’ultimo proposto in Italia anche come volume autonomo nel 2003) sembrano estratti da Storie dell’arcobaleno. Per non parlare di scritti come Le ragazze felici, variazione del tema di Storie della farfalla, e Dialettiche, trasposizione romanzata del reportage I poveri. Infine La tomba delle storie perdute, racconto-epilogo omaggio a Poe, riprende le atmosfere storico-oniriche di Ultime storie e altre storie. Ancora una volta, anche Tredici storie e tredici epitaffi sembra la summa capace di raccogliere le varie sensibilità di Vollmann. D’altronde, però, il nostro autore sembra capace di scrivere solo opere-mondo: in grado di racchiudere tutta la sua filosofia in un’apparente libro definitivo. 

Vollmann propone così le storie dei suoi reietti. Immerge il lettore nei meandri di città vere o anche solo immaginate (fra tutte la parodisticamente violenta Gun City), per poi avvolgerlo fra le lettere della sua scrittura-fiume. In Il fantasma del magnetismo si è travolti da un flusso di coscienza capace di alternare i registri in un virtuoso gioco narrativo. Il palese manifestarsi della ferocia viene trasposta nella sua totale banalità tramite affermazioni apparentemente estemporanee. Come precisa lo stesso Vollmann, la storia è come un carro funebre che si trascina inevitabilmente verso la sua fine. Le parole, seppur fredde e insensibili, seguono uno schema che compongono un mosaico destinato a compiersi davanti ai nostri occhi. Il libro sembra condannato a finire, condannato, per riprendere l’ultimo racconto, alla memoria di ciascuno e quindi a diventare una “storia perduta”.

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L’utilità dell’epitaffio

In Tredici storie e tredici epitaffi si riflette sulle parole ancestrali, celate dietro situazioni, per riprendere Georges Perec, dell’infra-ordinario. In questo libro si esagerano volutamente i toni, restituendo una fotografia tanto vivida della realtà da coglierla in tutto il suo estremo parossismo. Vollmann ha l’occhio dell’antropologo: osserva, studia e disseziona, sempre consapevole del fatto che tutto ciò che ha visto ha già cessato di esistere. 

Tredici storie e tredici epitaffi (acquista) si può leggere in diversi modi o, piuttosto, con diverso spirito. Possiamo descriverlo tanto una raccolta di racconti eterogenei quanto un romanzo-saggio in bilico fra fiction e non, tanto un reportage sui generis quanto un romanzo in frammenti. Comunque sia, anche in questo caso, ogni risposta nella sua finitezza non potrà soddisfare appieno la nostra curiosità. Non resta che seguire il carro di William T. Vollmann. Il finale è già scritto, ma per citare Edmond Jabès: «se il libro […] giunge a fare di un lettore anonimo, sconosciuto, un amico, questa è per l’autore la prova confortante che il libro al qualche ha sacrificato tanto, non era inutile».

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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